sabato 8 novembre 2008

Un po' lavoro e un po' no.



Ho lasciato l'Italia che ci saranno stati 25 gradi.
Arrivo a Bruxelles.
Escursione termica di 13 gradi.
Bene.
Mi mancava l'autunno.
Durante tutto il tragitto dall'aeroporto alla stazione è un continuo scambio di messaggini sulla Furmula Uno.
Non riesco davvero a capacitarmi di avre deciso di partire proprio il giorno della finale del mondiale e mi do dell'idiota.
Arrivata alla stazione non ce la faccio più e chiamo il Teo che non mi fa capire nulla, dice
 solo "Non ci credo, non ci credo", alza il volume della tele e avvicina il microfono del cellulare, io ascolto, salto e urlo "Quanto manca?".
Poi non sento più niente e domando "E' campione del mondo? Siamo campioni del mondo?".
La risposta la sanno tutti.
Fossi stata a Londra sarei stata guardata forse con un po' di disprezzo: questa Italian girl che si agita e alza la voce al cellulare... i bruxellesi invece non si scompongono: ci conoscono troppo bene, guardano e sorridono, magari hanno anche capito qualcosa di quello che dicevo al telefono.
Io arrivo in albergo e mi consolo con un invitante pezzo di torta che mia suocera mi aveva infilato nella borsa prima che partissi.
La pappa di casa.
Quanto fa italiano.
La mattina mi sveglio di buon ora con l'intento di scoprire un po' la città prima di cominciare a lavorare, mi affaccio alla finestra che dà su una viva piazzetta, dalle cinque strade che si affacciano formicolano ondate di persone che, come seguendo il pifferaio magico, si incanalano nella strada che porta alla stazione.
Non resisto e mi tuffo in questo mare.
Indosso la mia migliore maschera di turista e procedo a passo lento mentre la folla si apre attorno per poter continuare a fluire.

Galerie de la Reine, Galerie du Roi, attorno a me è un fiorire di cioccolaterie dalle vetrine illuminate. Ancora chiuse... va bene, troverò un momento per fare razzia.
In fondo alla galleria c'è un giornalaio che pare una boutique. Mi fermo per leggere i titoli in tutte le lingue: europee, asiatiche, russe... io prendo solo la Gazza, esco dalla boutique, la apro per bene e mi metto a leggere il resoconto del GP.
Quanto fa italiano.
Scendo in rue des Bouchers che si sta svegliando, la strada odora ancora, o di già, di cibo ed è un pullulare di furgoncini che riforniscono i ristoranti. Accanto a uno di questi non resisto e infilo il naso dentro, il profumo di pane è meraviglioso e intenso. Il ragazzo che fa il rifornimento capisce subito, prende una baguette da un metro e me la passa.
Incredula torno in albergo con la gazza da un lato e la baguette dall'altro.
Sorrido come una bimba davanti a un gelato.
E' bella Bruxelles, con questa aria perennemente autunnale e l'umidità che si trasforma in migliaia di minuscole goccioline sulla pelle. La forte umidità, fattasi nebbia, mi fa vedere solo cinque delle palle dell'Atomium.
E' cambiata Bruxelles, l'ultima volta l'Atomium era grigio e opaco, dimenticato dai suoi stessi concittadini. Oggi brilla e rispecchia l'ambiente circostante. Prendo un pacchetto di fritese maionese e me lo mangio sotto di lui. E lui rimanda la mia immagine distorta e godereccia.
Avevano ragio
ne in Pulp Fiction: ci ricoprono tutto con quella roba gialla.

Durante la settimana ritorno in rue des Bouchers per cenare, l'aspetto è completamente mutato. La strada è tutta una luminaria variopinta, si restringe per via dei tavolini all'aperto e dei cartelloni poggiati per terra che illustrano i piatti del giorno. Dalle entrate dei ristoranti si affacciano i camerieri nel tentativo di rimorchiare clienti e lo fanno in tutte le lingue che conoscono. Mi guardano e mi danno la Buonasera, devo averlo scritto in faccia che sono italiana, del resto non è difficile distinguermi dalla massa, con tutti i cambiamenti che hanno fatto i belgi sull'abbigliamento sono ancora decisamente arretrati e le strade sono un'esplosione di paperine rosse sformate.
Nelle tre sere trascorse in rue des Bouchers ho provato tre posti differenti e tutti con un gradevole risultato gastronomico. No, non ho ordinato la pasta, nè la pizza. Quando mi trovo al nord ne approfitto per farmi una bella scorpacciata di carne e pesce.
Un solo rimpianto: non essere riuscita a beccare aperta la libreria Tropismes in Galerie des Princes che dalla vetrina illuminata lasciava intravedere uno stupendo soffitto a cassettoni e in un angolo lontano la collezione delle opere della Pléiade.
Meglio per le mie tasche.
Provvisoriamente.
Tanto ci ritorno.

venerdì 31 ottobre 2008

Piccole riflessioni della settimana

Lo so che sono completamente fuori tema ma sono state date due notizie negli scorsi giorni che continuano a girarmi in testa.
La mia vita di loisirs è, come avrete capito, divisa in due: da una parte la letteratura, la storia e tante cose belle come queste, dall'altra lo sport.
Ebbene le due notizie sono state:
- l'arrivo di Beckam al Milan a partire da gennaio, ufficializzato ieri sul sito ufficiale
- Maradona alla guida della Selecion argentina.

La prima notizia mi lascia senza parole, non mi sono fatta un'idea a riguardo, forse me la farò solo a marzo, però mi immagino il Derby di ritorno con gol di Ronaldino, Sheva e Beckam e io che dopo rimango afona per una settimana con i vicini di casa che bussano alla porta per falciarmi (un bel film)
La seconda notizia mi ha aperto riflessioni basate sui meravigliosi anni in cui questo campione abbelliva il nostro campionato e da solo è riuscito a vincere uno scudetto (da solo e con qualche arbitro visto che allora alle spalle c'era Moggi, ma questa è un'altra storia).
La mano di Dio che ha regalato il mondiale all'Argentina, il piede del diavolo che soggiogava avversari e spettatori. Poi gli anni bui e gli avvoltoi che lo vedevano finito.
Mi piace questo Maradona, sereno, pacato, quasi nonno, mi piace vedere la resurrezione di un eroe quando tanti si sono persi per la strada, mi piace che possa ora guardare i suoi detrattori dall'alto in basso.
Mi fa sentire in pace con il mondo

Mi incanto sempre quando lo vedo, resto fissa a guardare a bocca aperta.
Nel video sono particolarmente gustose la punizione contro la Juve e la gomitata che gli ha rifilato Baresi, neanche lui riusciva a prenderlo.

Vi lascio per un po: domenica parto per Bruxelles e torno venerdì... da viaggiatrice sono presa dai preparativi, da sportiva mi mangio le mani perché riuscirò a stento a vedere la fine del mondiale di F1 e la partita al vertice contro il Napoli.
Da figlia mi dispiace ancora di più perché lunedì un certo Giovanni Bernardi sarà a Otto e mezzo, alle Otto e mezzo su La 7. La consolazione sta nel mio recorder che non mi fa perdere nulla.
... ricordandomi di programmarlo

Ciao a tutti, ci vediamo il prossimo week-end

martedì 28 ottobre 2008

Il Gatto con gli Stivali




La fiaba del Gatto con gli stivali viene resa nota per la prima volta da Giovanni Francesco Straparola, autore della raccolta di novelle Piacevoli notti , pubblicata a Venezia nel 1550. La novella s'intitola La Gatta, è ambientata nelle terre di Ripacandida e narra di un bambino, Fortunio, che alla morte della madre Soriana riceve in eredità una gatta mente i suoi fratelli ottengono beni più utili. I fratelli riescono a sopravvivere con quel poco che frutta l'eredità mentre Fortunio patisce i tormenti della povertà, tanto che la gatta, impietosita, promette di aiutarlo. Il felino si reca nel bosco, cattura una lepre e lo porta al re di Ripacandida dicendogli che è un dono di Messer Fortunio. Il siparietto si ripete più volte e più volte la gatta rubacchia da palazzo cibi e bevande per portarle al fanciullo. Tuttavia, il gatto è un animale di natura pigra e indolente così, stufa di quella fatica, convinse Fortunio a gettarsi in un fiume senza vestiti e urlare, proprio in quel momento passò il re con la sua corte e la gatta gli raccontò che il suo padrone, mentre si recava dal re a portargli ricchezze è stato derubato e gettato nel fiume. Impietosito e grato al fanciullo il re lo invita a palazzo e gli da in sposa la figlia. Sorge il problema di dove portare la sposina, che sicuramente si aspetta un castello e non l'ombra degli alberi. Veloce la gattina si precipita nelle campagne, precedendo il corteo nuziale che dovrebbe portare gli sposi nella loro dimora, convince con minacce cavalieri, mandriani e agricoltori a dire che tutto nei dintorni è proprietà di Messer Fortunio, persino il castello abbandonato che troneggia su quelle terre. E' così che la corte avanza e si sistema nella dimora procurata dalla gatta. Straparola poi risolve la questione della proprietà del castello dicendo nel finale che apparteneva a un anziano signore che lo aveva abbandonato e mai più reclamato.

Il tema del gatto industrioso ricompare con le novelle del Pentamerone di Giambattista Basile, già citato nel post su Cenerentola, sotto il titolo "Cagliuso", anche qui il gatto è in realtà una gatta e anche qui non si fa parola di stivali. 

L'incipit ve lo lascio perché è veramente un inno alla verve comica del Basile:

Era 'na vota a la cettà de Napole mio 'no viecchio pezzente pezzente, lo quale era cossì 'nzenziglio, sbriscio, grimmo, granne, lieggio, e senza 'na crespa 'n crispo a lo crespano, che ieva nudo comme a lo peducchio.

I fratelli sono due e, come nella tradizione di Straparola, uno eredita beni utili e l'altro una gatta. Il bosco si trasforma nel porto di Napoli e la cacciagione in pescato, il re è il re di Napoli e Messer Fortunio, il signor Cagliuso, di qui il titolo della novella. Cagliuso riesce a sposare la figlia del re, grazie alla gatta che ha messo in atto le stesse astuzie della sua compare veneta, con la dote della figlia del re si compra un po' di terre in Lombardia dove divenne barone. A questo punto, dove termina la fiaba di Straparola, si fa avanti la morale di Basile: Cagliuso promette alla gatta fortuna eterna, anche dopo la morte ma, quando lei si finge morta, lui non ci pensa due volte e fa per buttarla dalla finestra. La morale è affidata alla bocca della gatta che maledice Cagliuso:

Dio te guarde de ricco 'mpoveruto
e de pezzente quanno è resagliuto.

Arriviamo quindi a Monsieur Perrault e alla sua versione edita ne "I racconti di mamma oca". 

E' lui che consegna alla storia l'immagine del gatto maschio con un bel paio di stivali che spaccia il suo padrone per il marchese di Carabà, ed è lui a inserire nella fiaba la figura dell'orco. Sì, perché tutte le terre di cui il sedicente marchese millanta il possesso sono in realtà di proprietà di un terribile orco, capace di trasformarsi in ogni specie di animale... era evidente che la storia dell'anziano signore scomparso non poteva avere fortuna. Con lusinghe e ruffianerie proprie della natura felina convince l'orco a trasformarsi prima in un leone e poi in un topolino e il gatto, tutto contento della sua opera, gli si avventa contro e se lo pappa.

Il finale di Perrault è quello che preferisco: ovviamente il marchese sposa la figlia del re, il gatto diventa gran signore, continua a dare la caccia ai topi ma solo per divertimento.

C'è da dire che, a differenza delle due precedenti versioni, dove il fanciullo non era altro che uno zoticone ignorante pieno di pulci e preoccupato solo di soddisfare i suoi bisogni primari, questo marchese di Carabà sembra meno ingenuo: Fortunio e Cagliuso tenevano quasi sempre la bocca chiusa lasciando parlare la gatta, le poche parole che osavano pronunciare erano sempre fuori luogo e il più delle volte la gatta li doveva zittire per evitare che tutto andasse alla malora. Il marchese invece parla propriamente e intrattiene il re con la sua eloquenza.

Il gatto è l'animale che per eccellenza ha incarnato, nell'immaginario umano, poteri magici e divini, basti pensare al culto a lui dedicato nell'Antico Egitto sotto le sembianze della dea Bastet. Il mito del gatto con gli stivali trova corrispondenze anche nei paesi scandinavi, popolati dai gatti delle foreste norvegesi. Questi animali si contraddistinguono per avere baffi lunghissimi, coda voluminosa e... un bel paio di pantaloncini: delle coulottes che "indossano" in inverno per proteggersi dal freddo. Le contaminazioni tra testi di diverse tradizioni sono molto frequenti nella letteratura europea, non è da escludere dunque che l'irruzione degli stivali che distinguono la fiaba di Perrault dalle precedenti siano dovuti all'incrocio di testimonianze provenienti dal Nord.

Questo meraviglioso animale compare anche in una raccolta curata da Peter Christian Asbjornsen e Jorgen Moe, una sorta di risposta norvegese ai fratelli Grimm, interessati al folklore della loro terra percorsero la Norvegia in lungo e in largo visitando villaggi per raccogliere le fiabe tramandate oralmente. Il titolo della fiaba è The Cat on the Dovrefjill e narra di un orso chiamati Kitty che mette in fuga dei trolls. Per questo i trolls avranno sempre paura dei gatti. Mi dispiace dire che di questa versione, per ora, non ho possibilità di trattare direttamente.

La testimonianza riguardo il gatto che ho trovato più curiosa è contenuta nell'Edda in prosa di Snorri Sturluson, storico e poeta islandese del XII secolo.

nel capitolo 49 di quest'opera poetica si parla di Freyja che guida un carro trainati da gatti e nel capitolo 46 il gatto fa parte delle prove cui viene sottoposto Thor, dio del tuono per i Germani, che deve riuscire a sollevare un gatto pesantissimo (in realtà un essere mutaforme gigantesco trasformato in gatto) e non ci riesce.

Ecco una traduzione del passo:

Quindi balzò in mezzo alla sala un gatto grigio piuttosto grosso. Þórr gli andò vicino, gli mise la propria mano sotto la pancia e lo sollevò, ma il gatto inarcava la schiena tanto quanto Þórr sollevava la mano. Quando Þórr aveva sollevato la mano più in alto che poteva, il gatto aveva alzato solo una zampa e Þórr non riuscì ad avanzare oltre in questa prova.

Avete mai provato a sollevare un gatto norvegese?
Ricoperto da un foltissimo pelo e dotato di una natura melliflua, il gato sfugge dalla presa, scivola, si travasa da una parte all'altra del braccio tanto da rendere quasi impossibile la presa con un solo braccio.
Chi non ci crede può provare a sollevare il mio e affrontare, come Þórr, la terribile prova del gatto.

Grazie a Mantis - Luca per il prezioso suggerimento relativo all'Edda. Ricambierò.

venerdì 24 ottobre 2008

La maga delle fiabe


C’era una volta una maga, che aveva sette figli, quattro maschi e tre femmine. Strana questa storia, di solito le maghe delle fiabe non hanno figli. Tutte storie strane, diverse l’una dall’altra e tutte si discostano dalla norma: chi vuoi che racconti una fiaba di questo genere? Non la ascolterebbe nessuno, non ci crederebbe nessuno. Anche le fiabe devono rispondere a certi criteri. Se non hanno rispetto per i criteri delle fiabe, vengono respinte. Quindi, anche quando sfreni la fantasia, fai bene attenzione a non mandarla all’infinito, altrimenti la tua pur libera fantasia non viene creduta. La maga – direbbero – non può avere figli, perché si deve concentrare sulle fatture, sulle pozioni magiche, sul male e sul bene da fare. Non ha diritto a una famiglia, a una vita privata. Peggio o meglio per lei, non saprei dire. Senz’altro, per quei sette figli – quattro maschi e tre femmine, che non esisteranno mai, perché la maga non può avere figli - avrebbero vissuto chissà che bella infanzia e giovinezza, tutti e sette. Sei anni, cinque anni, quattro anni, tre anni, due anni, un anno e un neonato. Una scaletta di figli: da nguè ai primi tentativi di scrittura e così andare avanti, questa scaletta di figli, trasferendo le sensazioni, i piaceri della vita, l’uno agli altri e viceversa. A scaletta, invece, i vestiti: dal più grande al più piccolo, come si usa nelle famiglie per bene. Ma queste vite, seppure ne parliamo, non possono esistere nemmeno nelle fiabe, perché nelle fiabe le maghe non fanno figli.

E se le maghe avessero figli?
I bambini normali sanno che alle lucertole, se tagli la coda, questa ricresce. Non è forse magia?
La sera il frigo si svuota ma quando si ritorna a casa dopo la scuola i bambini lo trovano pieno. Non è forse magia?
Nonostante tutto l'impegno che ci si possa mettere per sporcare i vestiti rotolando nel fango, scivolando sull'erba e sgrodolando, i vestisi all'improvviso spariscono per un po' per poi ricomparire belli lindi e profumati. Non è forse magia?
Uova, zucchero e farina fanno una poltiglia informe, vengono riposti per un po' nella bocca del drago che scalda e prendono la forma di deliziose bestiole fragranti. Non è forse magia?
Si apre uno scrigno di bianche foglie sottili pieno di agili vermicelli neri e da lì escono parole gentili che raccontano di posti lontani, principesse e fate. Non è forse magia?
Forse è vero che le maghe non hanno figli, nessuna scaletta di marmocchi, però è anche vero che ogni figlio ha una magia tutta per sè.

Forse nelle fiabe le maghe non hanno figli, ma che importa? Non chiamiamole fiabe allora.
Chiamiamole storie.

sabato 18 ottobre 2008

Guigemar e il mito celtico della caccia al cervo



Tra i lais di Maria di Francia ve ne è uno che, più di altri, rivela la sua origine bretone.


Nel prologo la poetessa ci dice che il suo scopo è quello di rivelare le storie che hanno dato origine a canzoni allora ben conosciute:


Les contes ke jo sai verrais,
Dunt li Bretun unt fait les lais, 
Vos conterai assez briefment.
El chief de cest comencement,
Sulunc la lettre e l'escriture,
Vos mosterai une aventure
Ki en Bretaigne la Menur
Avint al tens ancïenur.
I racconti che io so essere veri, / da cui i Bretoni trassero i lais, / vi narrerò assai brevemente. / Prima di tutto, / secondo le testimonianza scritte,/ vi racconterò un’avventura / che avvenne nella Bretagna Minore, / al tempo degli antichi.

Di qual fonti sta parlando Maria di Francia?
Il lai si sviluppa in due movimenti ben distaccati tra loro:

  • L’iniziazione, simboleggiata dalla caccia al cervo che vede Guigemar protagonista
  • L’avventura amorosa che nasce dall’incontro con la malmariée, la malmaritata, sposa infelice di un uomo gelosissimo. 
Il secondo movimento è rintracciabile facilmente nella letteratura di origine classica, la fonte sembra riconducibile al Roman d’Eneas.

Il primo movimento invece affonda esplicitamente le sue radici nella materia di Bretagna e, più precisamente, si rifà al Mabinogion, gruppo di testi in prosa contenenti eventi storici e miti, alcuni risalenti all’età del Ferro, con grandi corrispondenze con quelli irlandesi.

Il lai si apre con una battuta di caccia

En l'espeise d'un grant buissun
Vit une bise od un foün; 
Tute fu blaunche cele beste, 
Perches de cerf out en la teste; 
Nel folto di una grossa macchia / ha visto una cerva col suo cerbiatto; / la bestia era tutta candida / e corna di cervo portava sulla testa. 
Allo stesso modo il Mabinogiom nel racconto di "Pwill prince of Dyfed:

"... vide un cervo davanti ai cani... i cani gli furono sopra e lo atterrarono. Quindi egli osservò il colore dei cani, senza guardare il cervo, e di tutti i cani che aveva visto al mondo, non ne aveva visti di simili. Perché il loro pelo era di un bianco brillante e le orecchie rosse".

Ebbene il cervo è carico, come pochi altri animali nella tradizione indoeuropea, di valori simbolici. Oltre a essere, nella mitologia greca, il simbolo della dea Artemide cacciatrice, presso i Celti era sacro al "dio cornuto" Cernumno, l'equivalente dell'Apollo greco, e interpreta il ciclo dell'eterno ringiovanimento, forse per la natura delle sue corna che cadono e ricrescono. Tale dio era anche connesso al solstizio d'inverno, e all'idea dell'anno che si rinnova. Lo stesso culto del cervo si ritrova poi tra i Celtiberi, i Celti di Spagna. Anche nell'Erec et Enide di Chrétien de Troye si ritrova il mito del cervo nell' "avventura della cerva bianca":


Demain matin a grant deduit
Irons chacier le blanc cerf tuit
An la forest aventureuse:
Ceste chace iert mout mervelleuse

Di primo mattino con gran piacere
andremo tutti a cacciare il cervo bianco
nella foresta avventurosa:
sarà una caccia meravigliosa.
La parola "meravigliosa" sembra essere retaggio della tradizione letterale precedente nella quale il cervo era in realtà una fata che riusciva a condurre l'amato nell'altro mondo. In Chrétien de Troye la caccia al cervo si fa tema cortese e, se il meraviglioso c'è, risiede nella casualità con cui Erec, durante la caccia al cervo trova Enide e se ne innamora.

Immagine: Cervo e Unicorno, dal De lapide philosophico Libellus di Lambsprinck. (1659).