Visualizzazione post con etichetta Lais. Mostra tutti i post
Visualizzazione post con etichetta Lais. Mostra tutti i post

domenica 21 dicembre 2008

Il mito dell'uomo-lupo II


( Lupo mannaro di Lucas Cranach il vecchio, 1512 circa, incisione, Gotha, Herzogliches Museu)

Il mito dell’uomo-lupo appartiene, per altre ragioni, anche al mondo norreno: nelle saghe si narra di una particolare casta di guerrieri sciamani, votati al dio Odino, combattevano coperti delle pelli di animali e ne imitavano le tattiche. Tra questi guerrieri v’erano gli uomini-lupo, Ulfedhnar, che, come i lupi, privilegiavano il combattimento in branco.

Ricongiungimento si trova nelle leggende di origine celtiche e nella letteratura arturiana si legge di Ulfius, assistente di Uther Pendragon, appartenente al Clan del Lupo.

Gervase of Tilbury, uno scolastico che scrisse tra il 1210 and 1214, annotò nei suoi “Otia Imperialia” che “in Inghilterra si vedono spesso uomini trasformati in lupi al mutar della luna." A quel tempo l’Isola Emerald era conosciuta come terra di lupi e si pensava che lo stesso San Patrizio avesse trasformato Vereticus, re del Galles, in un lupo.

Maria di Francia, che trasse ispirazione per i suoi Lais sia dalla letteratura classica (Ovide Moralisé), sia da miti celtici, ha inserito la leggenda dell’uomo-lupo in Bisclavret:

Un tempo si sentiva dire
E spesso accadeva
Che parecchi uomini diventavano lupi mannari
E avevano dimora nei boschi.
Il lupo mannaro è una bestia selvaggia;
quando è in preda a quel furore,
divora gli uomini, commette grandi mali,
si aggira e vaga nelle grandi foreste.

Questo è il cappello che fa Maria di Francia al lai Bisclavret: introduce la tematica dell’uomo-lupo ma in realtà il componimento tratta più dell’infedeltà di una moglie e della sua giusta punizione. Più che la storia in sé è interessante il modo in cui viene effettuata la trasformazione: per trasformarsi in lupo l’uomo deve spogliarsi dei suoi vestiti, allo stesso modo i vestiti gli sono indispensabili per ritrovare le sembianze umane. Da come viene raccontata la sua metamorfosi sembra che trasformarsi in lupo sia per lui necessario per sfogare la parte selvaggia e pericolosa, si ha proprio l’idea che l’uomo si trasformi di sua volontà e non, come invece è stato tramandato in seguito il mito, a causa di eventi indipendenti dalla sua volontà (vedi luna piena). Così infatti racconta la sua metamorfosi:

“Signora, io divento un lupo mannaro.
Mi inoltro in quella grande foresta,
nel folto della macchia,
e vivo di preda e di rapina.
… accanto a quel bosco,
di fianco al sentiero che percorro,
c’è una vecchia cappella
che molte volte mi è di grande aiuto
Ci metto i miei vestiti, sotto il cespuglio,
finché torno a casa.”

Anche il ritorno alle sembianze umane sembra volontario in quanto per ritornare uomo il cavaliere deve indossare vestiti.

Contemporaneo a Bisclavret è il lai di Melion, di autore anonimo, composto tra il 1190 e il 1204, conservato presso la Biblioteca de l’Arsénal di Parigi. La storia è uguale, tanto che sembra impossibile ritenere che i due componimenti non abbiano avuto la medesima fonte. Si differenziano solo per due particolari: Bisclavret è inserito in un contesto anonimo, un qualsiasi luogo della Bretagna in qualsiasi tempo, mentre di Melion sappiamo che era cavaliere al servizio di re Artù e che sposò la figlia del re d’Irlanda. Dopo tre anni di matrimonio la moglie, durante una battuta di caccia al cervo (ancora il motivo della caccia al cervo come elemento stravolgente), incita Melion a catturarlo, egli allora, con l’ausilio di un anello magico (elemento introdotto per la prima volta proprio in questo lai) si muta in lupo e inizia la caccia. L’anello viene affidato alla dama con queste parole:

‘Je vos lais ma vie et ma mort:
Il n’i auroit nul reconfort
Se de l’autre touciés n’estoie;
Jamais nul jor hom ne seroie’ (vv. 169-72)

Vi consegno la mia vita e la mia morte : / non ci sarebbe conforto / se nuovamente non fossi toccato ; / Mai più sarei uomo.

L’anello, come i vestiti in Bisclavret, opera la trasformazione in lupo e la riconversione in uomo. In entrambi i componimenti la moglie sottrae all’uomo lo strumento della metamorfosi per poi venir punita al termine del racconto.

Io mi fermo qui. A voler continuare ce ne sarebbe ancora per un po’, a cominciare dall’immagine del lupo cattivo presente nelle fiabe più note de “I tre porcellini” e di “Cappuccetto Rosso”, ma non escludo di poterne trattare in un altro momento.

domenica 14 dicembre 2008

Il mito dell'uomo-lupo

Per questa ricerca, come nel caso della caccia al cervo e della Malmariée, il punto di partenza è il libro dei Lais di Maria Di Francia. Avevo ben appuntato sul quaderno, cartaceo perché ancora se non fisso su carta non riesco a linkare, gli spunti di riflessione offerti dalle note della curatrice Giovanna Angeli. Volevo dare una citazione classica, magari greca, e due o tre tratte da componimenti romanzi medievali ma più seguivo gli spunti e più le cose si ingarbugliavano fino a costringermi a spezzare questo post in due tronconi, costringermi a stampare il tutto per vedere di riorganizzare il lavoro in modo da renderlo più fluido. Se ci sono riuscita non so, vedremo.

Il mito del licantropo ha le sue origini nella Grecia classica, presso il Monte Liceo, in Arcadia, dove si compivano riti sacrifici umani in onore dell’animale, protettore dei raccolti, al quale ci si rivolgeva nei periodi di carestia. Forse per motivare la scomparsa di tale culto si ricorse al mito di Licaone, sovrano empio dell’Arcadia che Zeus punì trasformandolo in lupo.

In seguito diventarono più frequenti gli accostamenti del lupo al mondo degli inferi: nelle culture italiche preromane il lupo aveva la funzione di psicopompo, accompagnatore delle anime dei defunti e, presso gli Etruschi, il dio della morte ha orecchie di lupo. Anche nell’antico Egitto vigeva lo stesso accostamento e, secondo Diodoro Siculo (I sec. a.C.), Osiride, re d’Egitto, tornando dal mondo dei morti, prese sembianze di lupo e lo stesso Anubi, divinità degli Inferi in Egitto, era chiamato anche “colui che ha forma di cane selvaggio”. E’ curioso ritrovare l’immagine del lupo accompagnatore di anime in un canto funebre rumeno, recitato ancora nei primi del 1900:

"Il lupo apparirà davanti a te. Prendilo come tuo fratello, perché il lupo conosce l’ordine delle foreste. Egli ti condurrà per via piana verso il paradiso…".

Una testimonianza diretta della leggenda che vede l’uomo trasformarsi in lupo ci viene fornita da Erodoto (484-425 a.C): nelle sue Storie, libro IV-105 a proposito dei Neuri, popolazione della Scizia:

Non è escluso che questi uomini siano degli stregoni: in effetti gli Sciti e i Greci residenti in Scizia raccontano che una volta all'anno ciascuno dei Neuri si trasforma in lupo per pochi giorni, poi di nuovo riprende il proprio aspetto. Di questa storia non riescono davvero a convincermi, nondimeno la raccontano, e giurano di dire la verità. 

Dalla sua testimonianza si può notare come l’uso del mito si stesse lentamente perdendo per adottare un approccio già più scientifico basato sulle testimonianze.

Tracce della trasformazione di un uomo in lupo si possono rintracciare persino nella Bibbia, e questa volta non c’entrano nulla le reinterpretazioni di matrice filologico-glottologiche di tutti quegli esperti che imperversano nelle trasmissioni di Giacobbo.

Girando in rete tra riferimenti conosciuto e casuali sono incappata in più siti che riportano il fenomeno della licantropia associato al re Nabuccodonosor. Da principio li ho presi per una colossale bufala ma la curiosità mi ha spinta comunque a ricorrere alla fonte: quella Bibbia (Edizione C.E.I.) che nella mia libreria è scientemente collocata tra i libri di storia.

Ebbene, nel libro di Daniele, che si fa risalire al II secolo a.C., capitolo 4, 30, si ritrovano le seguenti parole:

In quel momento stesso si adempì la parola sopra Nabucodònosor. Egli fu cacciato dal consorzio umano, mangiò l'erba come i buoi e il suo corpo fu bagnato dalla rugiada del cielo: il pelo gli crebbe come le penne alle aquile e le unghie come agli uccelli.

Tanto è conosciuto questo passo, ad altri, non a me, almeno fino a questo momento, che in psichiatria, la convinzione di trasformarsi in lupo è definita “licantropia di Nabucodonosor”, ma indica solo la presenza di un pensiero delirante, non crescono né peli né zanne.

Torniamo alle fonti letterarie per citare un passo delle Bucoliche Virgilio (I. sec, a.C), VIII 95-99, in poeta fa dipendere la trasformazione dell’uomo in lupo a delle erbe magiche:

Queste erbe e questi veleni raccolti nel Ponto
lo stesso Meri me li diede (nel Ponto ne nascono in abbondanza);
con questi vidi spesso Meri trasformarsi in lupo
e celarsi nelle selve, ed evocare le anime dai sepolcri profondi,
e trasportare le messi seminate da un campo all'altro.

Mentre per la prima volta, almeno per le testimonianze che ho a disposizione, è Petronio (I sec. d.C) nel Satyricon a legare il meccanismo della trasformazione al fenomeno della luna piena. Il passo qui di seguito riporta il racconto del liberto Nicerote durante la cena a casa di Trimalcione:

Alziamo le chiappe al primo canto del gallo e con una luna così chiara che sembrava di essere di giorno. Finimmo dentro un cimitero: il mio socio si avvicina a una lapide e si mette a pisciare, mentre io attacco a contare le lapidi fischiettando. A un certo punto, mi giro verso il tipo e vedo che si sta togliendo i vestiti di dosso e butta la sua roba sul ciglio della strada. A me mi va il cuore in gola e resto lì a fissarlo che per poco ci resto stecchito. Ed ecco che quello si mette a pisciare tutto intorno ai vestiti e di colpo si trasforma in lupo.

Sin qui quelle che potrebbero essere definite "fonti classiche", per quelle medievali dovete aspettare un pochino.

sabato 22 novembre 2008

La Malmariée nella letteratura medievale



Nella raccolta di Lais di Maria di Francia ricorre il tema della malmariée, termine generalmente utilizzato per indicare una donna sposata male, vuoi perché sposa di un uomo di più bassa estrazione sociale, vuoi perché, ed è spesso il caso nella produzione letteraria medievale, sposata con un uomo crudele o terribilmente geloso.
Nella mia ricerca di impossibili connessioni mi piace far risalire il tema della malmariée, sposa di un marito geloso, al libro di Siracide della Bibbia che recita:
9, 1: “Non dare l’anima tua alla tua donna, sì che essa si imponga sulla tua forza”. Contrariamente a quanto asserito nel testo sacro sembra esserci qui un’esortazione a non sposare per amore. Questo “comandamento” viene rispettato a pieno nei componimenti dei quali mi propongo di parlare qui di seguito.
La connessione sembra un po’ flebile e vedrò di farmi perdonare.
Possiamo ritrovare la sposa infelice nella Medea di Euripide: quando Giasone arriva in Colchide alla ricerca del vello d’oro lei se ne innamora perdutamente e arriva persino a uccidere il suo proprio fratello pur di aiutare l’eroe. I due si sposano ma dopo dieci anni di matrimonio Giasone la ripudia per nozze più fruttuose.
“Ma tutto infesto è adesso, e affligge il morbo
ogni piú cara cosa. In regio talamo
Giasone or dorme, ed ha traditi i figli
suoi, la consorte: ché sposò la figlia
di Creonte, signor di questa terra.
E Medèa, l'infelice, abbandonata,
ad alta voce i giuramenti invoca,
e della destra la solenne fede;
e del ricambio che Giasone or le offre,
a testimoni gli Dei chiama.”

Sin qui la donna è malmaritata perché sposa in un matrimonio senza amore o perché sposa tradita e abbandonata, ma nella letteratura medievale si fanno largo il sentimento della gelosia e il tema dell’adulterio moralmente comprensibile che ci accompagneranno nei secoli a venire arrivando a diventare soggetto stesso della narrazione come nei casi di Lady Chatterly, Anna Karenina e Madame Bovary: quando un’unione non è felice, la donna ha il diritto di cercarsi la felicità altrove e, in un’epoca in cui il divorzio non esisteva, via libera al tradimento.

Nella letteratura del XII secolo si sa, così come gli eroi sono dei veri paladini della giustizia, senza macchia, i villain, i cattivi, commettono azioni davvero spregevoli. Per questo il marito non è solo negligente o geloso, egli è un vero orco, geloso al punto di rinchiudere la moglie sotto chiave e farla sorvegliare da persone di sua fiducia. Ecco come Maria di Francia propone il tema nel Guigemar:
“ Il signore che la governava (la città)
 Era molto vecchio e aveva sposato
Una dama di alto lignaggio,
nobile, cortese, bella e saggia.
Egli era terribilmente geloso,
perché la natura vuole
che tutti i vecchi siano gelosi
La sua vigilanza non era uno scherzo:
in un giardino, sotto la torre,
c’era tutt’attorno  un recinto;
il muro era di marmo verde,
molto alto e spesso!
C’era una sola entrata:
ed era sorvegliata notte e giorno.
Il signore aveva fatto costruire nel recinto,
per tenere la moglie al sicuro,
una camera
Suo marito le aveva messo accanto,
come dama di compagnia, una fanciulla
Sua nipote, figlia di sua sorella.”

e in Yonec:
“Il signore era di età avanzata.
Poiché possedeva molti beni,
si sposò per avere dei figli
che fossero poi suoi eredi.
Di alto lignaggio era la fanciulla
Che fu data al ricco signore,
saggia, cortese, e molto bella:
Non faceva che sorvegliarla;
la chiuse dentro la sua torre,
in una grande stanza pavimentata.
Aveva un asorella,
vecchia e vedova, senza signore;
la affinacò alla moglie
perché la tenesse d’occhio meglio”

Una situazione come quella descritta rende più che lecita l’idea del tradimento, quasi un punizione divina.

Un’altra testimonianza sul tema della malmariée ci viene fornita dal Roman de Flamenca, opera anonima, da taluni attribuita a Guglielmo IX, risalente al XIII secolo.
Il tema è sempre quello della moglie rinchiusa per gelosia che può uscire dalla sua prigione dorata solo per recarsi alla messa ed è proprio tra i banchi della chiesa che Guillaume de Névers riesce ad avvicinarla facendosi passare per chierico. Durante lo scaombio della pace Guillaume riesce a dirle qualche parola, lei risponderà la settimana seguente sempre nella stessa occasione.

Mese I             G Ai las!              Ahi me!
                        F Que plains?    Perché piangi?
                        G Mor mi            io muoio
                        F De que?
Mese II             G D’amor
                        F Per cui ?
                        G Per vos
                        F Q’en pos         Che posso fare ?
Mese III            G Gagir              Guarirlo
                        F Consi?            Come
                        G Ger gein         Con l’inganno
                        F Pren l’i             Trovalo
Mese IV           G Pres l’ai           l’ho trovato
                        F E cal?
                        G Irez                  andreste?
                        F Esoh                e dove?
Mese V            G Als bans          ai bagni
                        F Cara?              Quando?
                        G Jom brev         Tra poco
                        F Plas mi            Va bene

Questo corteggiamento dura cinque mesi e solo al sesto i due amanti riusciranno a incontrarsi e rendere becco il marito geloso.

Il Boccaccio, che tanto spunto prese dalla letteratura popolare medievale, tratta anche lui del tema della malmariée ma lo svolge in modo diverso da Maria di Francia, più vicino al tono del fabliau, cercando più l’elemento comico che quello morale. La novella decima della seconda giornata narra di una giovane donna sposa a un anziano signore, Riccardo di Chinzica, che si rende conto, sin dalla prima notte di nozze, di non poter soddisfare sua moglie come lei desidera, si inventa quindi tutta una serie di festività e ricorrenze, religiose e non, nelle quali si doveva praticare l’astinenza.
La quale il giudice menata con grandissima festa a casa sua, e fatte le nozze belle e magnifiche, pur per la prima notte incappò una volta per consumare il matrimonio a toccarla, e di poco fallò che egli quella una non fece tavola; il quale poi la mattina, sì come colui che era magro e secco e di poco spirito, convenne che con vernaccia e con confetti ristorativi e con altri argomenti nel mondo si ritornasse. Or questo messer lo giudice, migliore stimatore delle sue forze divenuto che stato non era avanti, incominciò ad insegnare a costei un calendario buono da fanciulli che stanno a leggere, e forse già stato fatto a Ravenna. Per ciò che, secondo che egli le mostrava, niun dì era che non solamente una festa, ma molte non ne fossero; a reverenza delle quali per diverse cagioni mostrava l'uomo e la donna doversi astenere da così fatti congiungimenti.
 La moglie, giovane e bella, viene rapita da un corsaro, Paganino da Monaco, e vive con lui more uxori. Quando Riccardo la ritrova e pretende che lei ritorni a casa, la moglie lo apostrofa con le seguenti parole:
“voi, mentre che io fu'con voi, mostraste assai male di conoscer me, per ciò che se voi eravate savio o sete, come volete esser tenuto, dovavate bene aver tanto conoscimento, che voi dovavate vedere che io era giovane e fresca e gagliarda, e per conseguente conoscere quello che alle giovani donne, oltre al vestire e al mangiar, bene che elle per vergogna nol dicano, si richiede; il che come voi il faciavate? voi il vi sapete.

E s'egli v'era più a grado lo studio delle leggi che la moglie, voi non dovavate pigliarla”

Sin qui la letteratura popolare sembra privilegiare l’approccio scanzonato, la condanna della gelosia come ossessione, il diritto della donna ad amare ed essere amata nel rispetto della sua persona e delle sue esigenze in quanto essere morale e fisico.
Il tema della gelosia e del matrimonio infelice sarà una costante nella letteratura occidentale, ricorrerà ancor di più nelle canzoni popolari del XV secolo, ma credo che per tutti il vero dramma della gelosia resti l’Otello di Shakespeare.

sabato 18 ottobre 2008

Guigemar e il mito celtico della caccia al cervo



Tra i lais di Maria di Francia ve ne è uno che, più di altri, rivela la sua origine bretone.


Nel prologo la poetessa ci dice che il suo scopo è quello di rivelare le storie che hanno dato origine a canzoni allora ben conosciute:


Les contes ke jo sai verrais,
Dunt li Bretun unt fait les lais, 
Vos conterai assez briefment.
El chief de cest comencement,
Sulunc la lettre e l'escriture,
Vos mosterai une aventure
Ki en Bretaigne la Menur
Avint al tens ancïenur.
I racconti che io so essere veri, / da cui i Bretoni trassero i lais, / vi narrerò assai brevemente. / Prima di tutto, / secondo le testimonianza scritte,/ vi racconterò un’avventura / che avvenne nella Bretagna Minore, / al tempo degli antichi.

Di qual fonti sta parlando Maria di Francia?
Il lai si sviluppa in due movimenti ben distaccati tra loro:

  • L’iniziazione, simboleggiata dalla caccia al cervo che vede Guigemar protagonista
  • L’avventura amorosa che nasce dall’incontro con la malmariée, la malmaritata, sposa infelice di un uomo gelosissimo. 
Il secondo movimento è rintracciabile facilmente nella letteratura di origine classica, la fonte sembra riconducibile al Roman d’Eneas.

Il primo movimento invece affonda esplicitamente le sue radici nella materia di Bretagna e, più precisamente, si rifà al Mabinogion, gruppo di testi in prosa contenenti eventi storici e miti, alcuni risalenti all’età del Ferro, con grandi corrispondenze con quelli irlandesi.

Il lai si apre con una battuta di caccia

En l'espeise d'un grant buissun
Vit une bise od un foün; 
Tute fu blaunche cele beste, 
Perches de cerf out en la teste; 
Nel folto di una grossa macchia / ha visto una cerva col suo cerbiatto; / la bestia era tutta candida / e corna di cervo portava sulla testa. 
Allo stesso modo il Mabinogiom nel racconto di "Pwill prince of Dyfed:

"... vide un cervo davanti ai cani... i cani gli furono sopra e lo atterrarono. Quindi egli osservò il colore dei cani, senza guardare il cervo, e di tutti i cani che aveva visto al mondo, non ne aveva visti di simili. Perché il loro pelo era di un bianco brillante e le orecchie rosse".

Ebbene il cervo è carico, come pochi altri animali nella tradizione indoeuropea, di valori simbolici. Oltre a essere, nella mitologia greca, il simbolo della dea Artemide cacciatrice, presso i Celti era sacro al "dio cornuto" Cernumno, l'equivalente dell'Apollo greco, e interpreta il ciclo dell'eterno ringiovanimento, forse per la natura delle sue corna che cadono e ricrescono. Tale dio era anche connesso al solstizio d'inverno, e all'idea dell'anno che si rinnova. Lo stesso culto del cervo si ritrova poi tra i Celtiberi, i Celti di Spagna. Anche nell'Erec et Enide di Chrétien de Troye si ritrova il mito del cervo nell' "avventura della cerva bianca":


Demain matin a grant deduit
Irons chacier le blanc cerf tuit
An la forest aventureuse:
Ceste chace iert mout mervelleuse

Di primo mattino con gran piacere
andremo tutti a cacciare il cervo bianco
nella foresta avventurosa:
sarà una caccia meravigliosa.
La parola "meravigliosa" sembra essere retaggio della tradizione letterale precedente nella quale il cervo era in realtà una fata che riusciva a condurre l'amato nell'altro mondo. In Chrétien de Troye la caccia al cervo si fa tema cortese e, se il meraviglioso c'è, risiede nella casualità con cui Erec, durante la caccia al cervo trova Enide e se ne innamora.

Immagine: Cervo e Unicorno, dal De lapide philosophico Libellus di Lambsprinck. (1659).