venerdì 31 ottobre 2008

Piccole riflessioni della settimana

Lo so che sono completamente fuori tema ma sono state date due notizie negli scorsi giorni che continuano a girarmi in testa.
La mia vita di loisirs è, come avrete capito, divisa in due: da una parte la letteratura, la storia e tante cose belle come queste, dall'altra lo sport.
Ebbene le due notizie sono state:
- l'arrivo di Beckam al Milan a partire da gennaio, ufficializzato ieri sul sito ufficiale
- Maradona alla guida della Selecion argentina.

La prima notizia mi lascia senza parole, non mi sono fatta un'idea a riguardo, forse me la farò solo a marzo, però mi immagino il Derby di ritorno con gol di Ronaldino, Sheva e Beckam e io che dopo rimango afona per una settimana con i vicini di casa che bussano alla porta per falciarmi (un bel film)
La seconda notizia mi ha aperto riflessioni basate sui meravigliosi anni in cui questo campione abbelliva il nostro campionato e da solo è riuscito a vincere uno scudetto (da solo e con qualche arbitro visto che allora alle spalle c'era Moggi, ma questa è un'altra storia).
La mano di Dio che ha regalato il mondiale all'Argentina, il piede del diavolo che soggiogava avversari e spettatori. Poi gli anni bui e gli avvoltoi che lo vedevano finito.
Mi piace questo Maradona, sereno, pacato, quasi nonno, mi piace vedere la resurrezione di un eroe quando tanti si sono persi per la strada, mi piace che possa ora guardare i suoi detrattori dall'alto in basso.
Mi fa sentire in pace con il mondo

Mi incanto sempre quando lo vedo, resto fissa a guardare a bocca aperta.
Nel video sono particolarmente gustose la punizione contro la Juve e la gomitata che gli ha rifilato Baresi, neanche lui riusciva a prenderlo.

Vi lascio per un po: domenica parto per Bruxelles e torno venerdì... da viaggiatrice sono presa dai preparativi, da sportiva mi mangio le mani perché riuscirò a stento a vedere la fine del mondiale di F1 e la partita al vertice contro il Napoli.
Da figlia mi dispiace ancora di più perché lunedì un certo Giovanni Bernardi sarà a Otto e mezzo, alle Otto e mezzo su La 7. La consolazione sta nel mio recorder che non mi fa perdere nulla.
... ricordandomi di programmarlo

Ciao a tutti, ci vediamo il prossimo week-end

martedì 28 ottobre 2008

Il Gatto con gli Stivali




La fiaba del Gatto con gli stivali viene resa nota per la prima volta da Giovanni Francesco Straparola, autore della raccolta di novelle Piacevoli notti , pubblicata a Venezia nel 1550. La novella s'intitola La Gatta, è ambientata nelle terre di Ripacandida e narra di un bambino, Fortunio, che alla morte della madre Soriana riceve in eredità una gatta mente i suoi fratelli ottengono beni più utili. I fratelli riescono a sopravvivere con quel poco che frutta l'eredità mentre Fortunio patisce i tormenti della povertà, tanto che la gatta, impietosita, promette di aiutarlo. Il felino si reca nel bosco, cattura una lepre e lo porta al re di Ripacandida dicendogli che è un dono di Messer Fortunio. Il siparietto si ripete più volte e più volte la gatta rubacchia da palazzo cibi e bevande per portarle al fanciullo. Tuttavia, il gatto è un animale di natura pigra e indolente così, stufa di quella fatica, convinse Fortunio a gettarsi in un fiume senza vestiti e urlare, proprio in quel momento passò il re con la sua corte e la gatta gli raccontò che il suo padrone, mentre si recava dal re a portargli ricchezze è stato derubato e gettato nel fiume. Impietosito e grato al fanciullo il re lo invita a palazzo e gli da in sposa la figlia. Sorge il problema di dove portare la sposina, che sicuramente si aspetta un castello e non l'ombra degli alberi. Veloce la gattina si precipita nelle campagne, precedendo il corteo nuziale che dovrebbe portare gli sposi nella loro dimora, convince con minacce cavalieri, mandriani e agricoltori a dire che tutto nei dintorni è proprietà di Messer Fortunio, persino il castello abbandonato che troneggia su quelle terre. E' così che la corte avanza e si sistema nella dimora procurata dalla gatta. Straparola poi risolve la questione della proprietà del castello dicendo nel finale che apparteneva a un anziano signore che lo aveva abbandonato e mai più reclamato.

Il tema del gatto industrioso ricompare con le novelle del Pentamerone di Giambattista Basile, già citato nel post su Cenerentola, sotto il titolo "Cagliuso", anche qui il gatto è in realtà una gatta e anche qui non si fa parola di stivali. 

L'incipit ve lo lascio perché è veramente un inno alla verve comica del Basile:

Era 'na vota a la cettà de Napole mio 'no viecchio pezzente pezzente, lo quale era cossì 'nzenziglio, sbriscio, grimmo, granne, lieggio, e senza 'na crespa 'n crispo a lo crespano, che ieva nudo comme a lo peducchio.

I fratelli sono due e, come nella tradizione di Straparola, uno eredita beni utili e l'altro una gatta. Il bosco si trasforma nel porto di Napoli e la cacciagione in pescato, il re è il re di Napoli e Messer Fortunio, il signor Cagliuso, di qui il titolo della novella. Cagliuso riesce a sposare la figlia del re, grazie alla gatta che ha messo in atto le stesse astuzie della sua compare veneta, con la dote della figlia del re si compra un po' di terre in Lombardia dove divenne barone. A questo punto, dove termina la fiaba di Straparola, si fa avanti la morale di Basile: Cagliuso promette alla gatta fortuna eterna, anche dopo la morte ma, quando lei si finge morta, lui non ci pensa due volte e fa per buttarla dalla finestra. La morale è affidata alla bocca della gatta che maledice Cagliuso:

Dio te guarde de ricco 'mpoveruto
e de pezzente quanno è resagliuto.

Arriviamo quindi a Monsieur Perrault e alla sua versione edita ne "I racconti di mamma oca". 

E' lui che consegna alla storia l'immagine del gatto maschio con un bel paio di stivali che spaccia il suo padrone per il marchese di Carabà, ed è lui a inserire nella fiaba la figura dell'orco. Sì, perché tutte le terre di cui il sedicente marchese millanta il possesso sono in realtà di proprietà di un terribile orco, capace di trasformarsi in ogni specie di animale... era evidente che la storia dell'anziano signore scomparso non poteva avere fortuna. Con lusinghe e ruffianerie proprie della natura felina convince l'orco a trasformarsi prima in un leone e poi in un topolino e il gatto, tutto contento della sua opera, gli si avventa contro e se lo pappa.

Il finale di Perrault è quello che preferisco: ovviamente il marchese sposa la figlia del re, il gatto diventa gran signore, continua a dare la caccia ai topi ma solo per divertimento.

C'è da dire che, a differenza delle due precedenti versioni, dove il fanciullo non era altro che uno zoticone ignorante pieno di pulci e preoccupato solo di soddisfare i suoi bisogni primari, questo marchese di Carabà sembra meno ingenuo: Fortunio e Cagliuso tenevano quasi sempre la bocca chiusa lasciando parlare la gatta, le poche parole che osavano pronunciare erano sempre fuori luogo e il più delle volte la gatta li doveva zittire per evitare che tutto andasse alla malora. Il marchese invece parla propriamente e intrattiene il re con la sua eloquenza.

Il gatto è l'animale che per eccellenza ha incarnato, nell'immaginario umano, poteri magici e divini, basti pensare al culto a lui dedicato nell'Antico Egitto sotto le sembianze della dea Bastet. Il mito del gatto con gli stivali trova corrispondenze anche nei paesi scandinavi, popolati dai gatti delle foreste norvegesi. Questi animali si contraddistinguono per avere baffi lunghissimi, coda voluminosa e... un bel paio di pantaloncini: delle coulottes che "indossano" in inverno per proteggersi dal freddo. Le contaminazioni tra testi di diverse tradizioni sono molto frequenti nella letteratura europea, non è da escludere dunque che l'irruzione degli stivali che distinguono la fiaba di Perrault dalle precedenti siano dovuti all'incrocio di testimonianze provenienti dal Nord.

Questo meraviglioso animale compare anche in una raccolta curata da Peter Christian Asbjornsen e Jorgen Moe, una sorta di risposta norvegese ai fratelli Grimm, interessati al folklore della loro terra percorsero la Norvegia in lungo e in largo visitando villaggi per raccogliere le fiabe tramandate oralmente. Il titolo della fiaba è The Cat on the Dovrefjill e narra di un orso chiamati Kitty che mette in fuga dei trolls. Per questo i trolls avranno sempre paura dei gatti. Mi dispiace dire che di questa versione, per ora, non ho possibilità di trattare direttamente.

La testimonianza riguardo il gatto che ho trovato più curiosa è contenuta nell'Edda in prosa di Snorri Sturluson, storico e poeta islandese del XII secolo.

nel capitolo 49 di quest'opera poetica si parla di Freyja che guida un carro trainati da gatti e nel capitolo 46 il gatto fa parte delle prove cui viene sottoposto Thor, dio del tuono per i Germani, che deve riuscire a sollevare un gatto pesantissimo (in realtà un essere mutaforme gigantesco trasformato in gatto) e non ci riesce.

Ecco una traduzione del passo:

Quindi balzò in mezzo alla sala un gatto grigio piuttosto grosso. Þórr gli andò vicino, gli mise la propria mano sotto la pancia e lo sollevò, ma il gatto inarcava la schiena tanto quanto Þórr sollevava la mano. Quando Þórr aveva sollevato la mano più in alto che poteva, il gatto aveva alzato solo una zampa e Þórr non riuscì ad avanzare oltre in questa prova.

Avete mai provato a sollevare un gatto norvegese?
Ricoperto da un foltissimo pelo e dotato di una natura melliflua, il gato sfugge dalla presa, scivola, si travasa da una parte all'altra del braccio tanto da rendere quasi impossibile la presa con un solo braccio.
Chi non ci crede può provare a sollevare il mio e affrontare, come Þórr, la terribile prova del gatto.

Grazie a Mantis - Luca per il prezioso suggerimento relativo all'Edda. Ricambierò.

venerdì 24 ottobre 2008

La maga delle fiabe


C’era una volta una maga, che aveva sette figli, quattro maschi e tre femmine. Strana questa storia, di solito le maghe delle fiabe non hanno figli. Tutte storie strane, diverse l’una dall’altra e tutte si discostano dalla norma: chi vuoi che racconti una fiaba di questo genere? Non la ascolterebbe nessuno, non ci crederebbe nessuno. Anche le fiabe devono rispondere a certi criteri. Se non hanno rispetto per i criteri delle fiabe, vengono respinte. Quindi, anche quando sfreni la fantasia, fai bene attenzione a non mandarla all’infinito, altrimenti la tua pur libera fantasia non viene creduta. La maga – direbbero – non può avere figli, perché si deve concentrare sulle fatture, sulle pozioni magiche, sul male e sul bene da fare. Non ha diritto a una famiglia, a una vita privata. Peggio o meglio per lei, non saprei dire. Senz’altro, per quei sette figli – quattro maschi e tre femmine, che non esisteranno mai, perché la maga non può avere figli - avrebbero vissuto chissà che bella infanzia e giovinezza, tutti e sette. Sei anni, cinque anni, quattro anni, tre anni, due anni, un anno e un neonato. Una scaletta di figli: da nguè ai primi tentativi di scrittura e così andare avanti, questa scaletta di figli, trasferendo le sensazioni, i piaceri della vita, l’uno agli altri e viceversa. A scaletta, invece, i vestiti: dal più grande al più piccolo, come si usa nelle famiglie per bene. Ma queste vite, seppure ne parliamo, non possono esistere nemmeno nelle fiabe, perché nelle fiabe le maghe non fanno figli.

E se le maghe avessero figli?
I bambini normali sanno che alle lucertole, se tagli la coda, questa ricresce. Non è forse magia?
La sera il frigo si svuota ma quando si ritorna a casa dopo la scuola i bambini lo trovano pieno. Non è forse magia?
Nonostante tutto l'impegno che ci si possa mettere per sporcare i vestiti rotolando nel fango, scivolando sull'erba e sgrodolando, i vestisi all'improvviso spariscono per un po' per poi ricomparire belli lindi e profumati. Non è forse magia?
Uova, zucchero e farina fanno una poltiglia informe, vengono riposti per un po' nella bocca del drago che scalda e prendono la forma di deliziose bestiole fragranti. Non è forse magia?
Si apre uno scrigno di bianche foglie sottili pieno di agili vermicelli neri e da lì escono parole gentili che raccontano di posti lontani, principesse e fate. Non è forse magia?
Forse è vero che le maghe non hanno figli, nessuna scaletta di marmocchi, però è anche vero che ogni figlio ha una magia tutta per sè.

Forse nelle fiabe le maghe non hanno figli, ma che importa? Non chiamiamole fiabe allora.
Chiamiamole storie.

sabato 18 ottobre 2008

Guigemar e il mito celtico della caccia al cervo



Tra i lais di Maria di Francia ve ne è uno che, più di altri, rivela la sua origine bretone.


Nel prologo la poetessa ci dice che il suo scopo è quello di rivelare le storie che hanno dato origine a canzoni allora ben conosciute:


Les contes ke jo sai verrais,
Dunt li Bretun unt fait les lais, 
Vos conterai assez briefment.
El chief de cest comencement,
Sulunc la lettre e l'escriture,
Vos mosterai une aventure
Ki en Bretaigne la Menur
Avint al tens ancïenur.
I racconti che io so essere veri, / da cui i Bretoni trassero i lais, / vi narrerò assai brevemente. / Prima di tutto, / secondo le testimonianza scritte,/ vi racconterò un’avventura / che avvenne nella Bretagna Minore, / al tempo degli antichi.

Di qual fonti sta parlando Maria di Francia?
Il lai si sviluppa in due movimenti ben distaccati tra loro:

  • L’iniziazione, simboleggiata dalla caccia al cervo che vede Guigemar protagonista
  • L’avventura amorosa che nasce dall’incontro con la malmariée, la malmaritata, sposa infelice di un uomo gelosissimo. 
Il secondo movimento è rintracciabile facilmente nella letteratura di origine classica, la fonte sembra riconducibile al Roman d’Eneas.

Il primo movimento invece affonda esplicitamente le sue radici nella materia di Bretagna e, più precisamente, si rifà al Mabinogion, gruppo di testi in prosa contenenti eventi storici e miti, alcuni risalenti all’età del Ferro, con grandi corrispondenze con quelli irlandesi.

Il lai si apre con una battuta di caccia

En l'espeise d'un grant buissun
Vit une bise od un foün; 
Tute fu blaunche cele beste, 
Perches de cerf out en la teste; 
Nel folto di una grossa macchia / ha visto una cerva col suo cerbiatto; / la bestia era tutta candida / e corna di cervo portava sulla testa. 
Allo stesso modo il Mabinogiom nel racconto di "Pwill prince of Dyfed:

"... vide un cervo davanti ai cani... i cani gli furono sopra e lo atterrarono. Quindi egli osservò il colore dei cani, senza guardare il cervo, e di tutti i cani che aveva visto al mondo, non ne aveva visti di simili. Perché il loro pelo era di un bianco brillante e le orecchie rosse".

Ebbene il cervo è carico, come pochi altri animali nella tradizione indoeuropea, di valori simbolici. Oltre a essere, nella mitologia greca, il simbolo della dea Artemide cacciatrice, presso i Celti era sacro al "dio cornuto" Cernumno, l'equivalente dell'Apollo greco, e interpreta il ciclo dell'eterno ringiovanimento, forse per la natura delle sue corna che cadono e ricrescono. Tale dio era anche connesso al solstizio d'inverno, e all'idea dell'anno che si rinnova. Lo stesso culto del cervo si ritrova poi tra i Celtiberi, i Celti di Spagna. Anche nell'Erec et Enide di Chrétien de Troye si ritrova il mito del cervo nell' "avventura della cerva bianca":


Demain matin a grant deduit
Irons chacier le blanc cerf tuit
An la forest aventureuse:
Ceste chace iert mout mervelleuse

Di primo mattino con gran piacere
andremo tutti a cacciare il cervo bianco
nella foresta avventurosa:
sarà una caccia meravigliosa.
La parola "meravigliosa" sembra essere retaggio della tradizione letterale precedente nella quale il cervo era in realtà una fata che riusciva a condurre l'amato nell'altro mondo. In Chrétien de Troye la caccia al cervo si fa tema cortese e, se il meraviglioso c'è, risiede nella casualità con cui Erec, durante la caccia al cervo trova Enide e se ne innamora.

Immagine: Cervo e Unicorno, dal De lapide philosophico Libellus di Lambsprinck. (1659).

mercoledì 15 ottobre 2008

La versione di Barney


Inizio dalla prima volta che ci siamo visti. Estate. Ero all’Auchan per una spesa veloce, per quanto possa essere veloce una spesa con migliaia di oggetti che ti ammiccano dagli scaffali cercando di attirare la tua attenzione e un fiume di gente in piena che ti travolge portandoti in giro fra le rapide. Per fortuna lì c’è sempre un luogo semideserto, popolato solo da creature perse che si danno appuntamento dove è meno affollato: quello dei libri. Aspettate. Prima devo spiegare una cosa: un fenomeno strano che si verifica tutte le estati è la misteriosa comparsa di ondate di libri sugli scaffali, solitamente deserti negli altri periodi dell’anno. E tutti gli anni, a luglio, mi ritrovo a curiosare tra titoli stranoti, titoli à la page, come quest’anno le opere di Doris Lessing, Nobel del 2007, e titoli sconosciuti di autori ancor più sconosciuti, almeno a me.
E’ proprio tra gli autori meno noti che ho imparato ad apprezzare le opere di Antonia Byatt e Koetzee perciò ci do sempre un’occhiata.
Ad altezza occhi trovo proprio Doris Lessing e il suo libro sui gatti, un po’ più in alto Joseph Roth, che io confondo con Philip Roth e metto in fretta nel cestino. Impiccato in alto un certo Mordecai Richler mi fa l’occhiolino, sono in vena di shopping, prendo anche lui, vado con il mio bottino alla cassa e torno a casa. Ripongo tutti e tre, e altri dei quali non ho accennato, su una piccola libreria all’ingresso così divisa: sopra una foto che ci sta sempre bene, primo ripiano i libri di prossima lettura, secondo ripiano i libri appena letti che sono troppo pigra per riporre con cura nello studio, ripiano in basso le uscite di “Invito all’Opera”.
La settimana scorsa Mordecai mi ha di nuovo strizzato l’occhio e l’ho infilato in borsa per leggermelo con comodo durante la pausa pranzo sotto il mio ulivo (approfitto del bel tempo finché si può), porto con me anche un Victor Hugo nel caso quello che legga non mi piaccia.
E invece mi piace.
Hugo torna la sera stessa sulla libreria.
La foto in copertina mostra un uomo sui trent’anni spaventosamente somigliante a James Dean, non c’entra nulla con il libro: è una foto dell’autore scattata probabilmente negli anni 50-60.
Nel primo capitolo l’autore cerca di spiegare lo scopo del libro ma ci riesce a pieno solo durante la narrazione, Barney, produttore televisivo canadese prossimo alla settantina, racconta la sua vita a partire dal momento del distacco dalla famiglia e lo fa dandone, ovviemnte, la sua versione.
Ha vissuto, negli anni ’50, un periodo bohémien a Parigi, circondato da amici con mire letterarie, alcuni dei quali hanno avuto successo e vedono le loro opere esposte oggi, gli anni ’90, in varie librerie. Uno di questi, nella sua ultima fatica, ha scritto proprio di quella ghenga, così la chiama Barney, di giovani canadesi a Parigi. L’immagine che ne esce di Barney è orribile, miserevole direi. La versione di Barney è una vendetta: nei confronti dell’amico scrittore, nei confronti della società che lo ha visto imputato in un caso di omicidio ancora irrisolto, per il quale molte delle sue conoscenze lo ritengono colpevole, nei confronti di se stesso, perché è riuscito a rovinare qualsiasi cosa abbia avuto tra le mani.
Non c’è apologia, tutto è raccontato nei più beceri aspetti, la vita bohémienne di Parigi non è rivestita di quella patina romantica che ci si potrebbe aspettare: la narrazione è triviale, bassa, il suo primo matrimonio viene descritto come una fatalità inevitabile per riparare alla gravidanza della sua amichetta e il bambino che ne nasce, senza vita, non è nemmeno suo, ma Barney confessa di essersene accorto solo nel momento in cui lo ha visto, troppo scuro per essere il figlio di due ebrei canadesi.
Il secondo matrimonio non è certo meglio: involontariamente si trova a dire “lo voglio” e non si capisce nemmeno perché. Quello che si capisce è che lei potrebbe essere perfetta, per altri, non per lui, lui è quanto di più distante dalla perfezione.
Mentre leggo non mi accorgo che le pagine scorrono velocemente, saranno le storie di inverosimile quotidianità, sarà quel tono canzonatorio dell’autore nei confronti di se stesso, saranno quei discorsi bassi, talmente reali, talmente intimi, che un uomo farebbe a stento anche con se stesso.
E’ il racconto di un vecchio che cerca di sopravvivere alla quotidianità dei nomi di oggetti che non gli vengono in mente, ricorsivamente ripete una sorta di mantra che gli serve per dimostrare a se stesso di non essere decrepito: l’aggeggio che serve per versare la minestra, i nomi dei sette nani, associazioni di nomi di autori e opere scritte. Quando non ci riesce dice sarcasticamente “chi se ne frega”, quando pensa di esserci riuscito fa “tiè!”, quasi avesse vinto una partita che sta giocando da solo.
E’ il racconto di un vecchio che non si vergogna di descrivere la sua visita dal proctologo, non si vergogna di menzionare le incontrollate e rumorose reazioni del suo intestino a cena con una squillo.
Barney è un uomo solo che è riuscito a distruggere ogni cosa nella sua vita, ha distrutto tutto perché ha sempre denigrato tutto, per primo se stesso. Ma ama la sua famiglia, la vede attorno a sé anche se i figli hanno ormai lasciato il nido e Miriam, la terza moglie, lo ha lasciato per mettersi con un “professorone-vegetariano-salviamo-le-balene-niente-pelliccia-per-favore”. Si aggira solo per casa, accarezza la sedia a dondolo sulla quale Miriam allattava i figli, fruga tra i libri, gli sci, le racchette dei suoi bambini… è talmente reale il suo narrare che ti viene di girarti e dire “Piantala di muoverti alla rinfusa, mi dai fastidio!”. Durante tutta la narrazione sempre lo stesso intercalare: “Miriam, mia Miriam”, la vede ovunque e le dice “Sei bellissima, Miriam”, bellissima a vent’anni quando l’ha vista per la prima volta al suo proprio secondo matrimonio e, dopo aver detto sì, l’ha rincorsa per chiederle di fuggire a Parigi, bellissima al primo appuntamento dove lui ha vomitato per tutto il tempo, bellissima arrabbiata, bellissima a sessant’anni, all’ultimo appuntamento, poco dopo aver scoperto di soffrire di Alzheimer, prima di non ricordarla più.
L’ultimo incontro non appartiene già più alla versione di Barney: Barney ha già finito di ricordare, a proseguire il racconto è uno dei suoi figli, Saul, che, con l’amore e con l’odio che accompagna il rapporto padre-figlio, cerca di ricostruire gli ultimi giorni del padre, troppo tardi per amarlo, troppo presto per comprenderlo, troppo tardi anche per dargli ragione lì dove tutti, amici e parenti, gli avevano dato del bugiardo. Le ultime due pagine mi fanno balzare in piedi, con una mano tengo il libro, con l’altra incito Michael a “vedere” la realtà di fronte i suoi occhi, stringo il pugno e urlo: “Ma non vedi, pezzo d’idiota? Non capisci?”. Alla fine comprende, comprendiamo tutti.