sabato 17 febbraio 2018

Italo Calvino - Il Visconte dimezzato



Una parabola dal sapore cristiano sulla necessità di essere / possedere sia il bene che il male, sull'essere buoni e cattivi, sull'essere interi per essere umani.

Il solo male è sicuramente nocivo ma altrettanto può esserlo il solo bene tanto che i lebbrosi si ritroveranno a pensare che "delle due metà è peggio la buona della grama".

Della parabola riprende la moralità senza pedanteria e la semplicità. Calvino parla ai ragazzi, agli adulti, ai colti e ai curiosi, non serve grande cultura letteraria per comprendere questo racconto, serve capacità di astrazione.
Piacevolmente leggero, sorprendentemente semplice eppure ricco di spunti per pensare, meditare, astrarre.

Lo scopo dell'opera lo rivela proprio Calvino nella nota al testo del 1960: 

"Quel che mi interessava, il dimidiamento. Dimidiato, mutilato, incompleto, nemico a sé stesso è l'uomo contemporaneo; Marx lo disse "alienato", Freud "represso"; uno stato d'antica armonia è perduto, a una nuova completezza si aspira. Il nocciolo ideologico-morale che volevo coscientemente dare alla storia era questo. Ma più che lavorare ad approfondirlo sul piano filosofico, ho badato a dare al racconto uno scheletro che funzionasse come un ben connesso meccanismo, e carne e sangue di libere associazioni d'immaginazione lirica."

In fondo rimane una parabola sul bene e sul male e sulla necessità di entrambi.

Ci sono due particolari però che non mi sono del tutto chiari, e sui quali posso fare supposizioni
http://www.eleniaberetta.com/Il-Visconte-Dimezzato

Il primo riguarda i nomi: il dottor Trelowney porta il nome di uno dei personaggi dell'Isola del Tesoro di Stevenson, precursore dell'indagare, svelare, citare le teorie del doppio con Jekyll-Hyde. Ora secondo me laddove per Stevenson le teorie del doppio, del bene e male racchiusi nella medesima natura umana, costituivano l'innovazione, per Calvino invece il doppio è ormai la normalità così come lo è per noi ed è per questo che l'innovazione è ora il dimidiamento, il dimezzamento che non è solo la frattura bene/male ma è la frattura all'interno dell'Uomo, l'uomo spezzato. 

Mi torna in mente Eliot, i frammenti della Terra Desolata con cui puntellava le sue rovine, poesia come insieme di frammenti... il dottor Trelawney che si affanna a bendare, fasciare, ricongiungere le due metà del Visconte facendo combaciare viscere e arterie, ricongiungendo frammenti, puntellando rovine.
L'artista del primo Novecento in crisi d'identità cercava un nuovo rapporto con l'arte e nuovi modi per esprimersi per distaccarsi dagli ingombranti padri del Canone che sembravano possedere verità assolute e sicurezze laddove il poeta moderno era insicuro e tremante e non si ergeva più a dispensatore di verità (cfr. Montale "Non chiederco parola").
Allo stesso modo anche l'uomo del secondo dopoguerra è alla ricerca di un nuovo rapporto con la realtà, l'insicurezza, la zoppia hanno pervaso la società tutta, il senso di ribellione verso la società dei padri si sta insinuando e di lì a qualche anno esploderà in minigonne, caschetti e jeans, in desideri di parità e uguaglianza.  

"Alle volte uno si sente incompleto ed è soltanto giovane."

E giovane era la società in cui Calvino si muoveva. Una società che avvertiva il senso di incompletezza come una sorta di epoca adolescenziale alla ricerca di identità.

Il secondo particolare è relativo alla determinazione temporale. Il riferimento ai turchi in Boemia e alla cacciata degli Ugonotti dalla Francia localizza il racconto nel Seicento, le guerre ottomano-Asburgiche coprono un arco di tempo che va dalla prima metà del Cinquecento alla fine del Settecento. La cacciata degli Ugonotti di cui parla Calvino (cap. V) si può far risalire a subito dopo il 1685 quando re Luigi XIV revocò l'Editto di Nantes dando inizio al clima di persecuzione in Francia.
Il riferimento poi al capitano Cook e all'Australia ci porta nel Settecento, precisamente nel 1770.
Questa fluidità temporale può risultare destabilizzante: nella maggior parte della narrazione siamo di fronte a una storia straordinaria inserita in un contesto abbastanza storico e coerente finché non si prendono in considerazione i riferimenti a Cook e all'Australia che faranno sicuramente storcere il naso ai puristi della coerenza logica, ma contribuiscono al generale clima fiabesco.

George Martin - La Principessa e la Regina



Confesso di aver comprato il libro perché avevo un buono da spendere e ho letto solo il racconto di Martin, l'unico che mi interessi al momento.
Prometto di leggere anche gli altri in futuro anche se la forma del racconto non è la mia preferita. 
La storia narrata da Martin è quella relativa alla Danza dei Draghi ovvero la guerra civile nata dai problemi di successione a re Viserys I tra la primogenita della prima moglie Rhaenyra e il primogenito della seconda moglie Aegon.
Se vi aspettate la prosa dei libri del Trono di Spade rimarrete delusi e rimarrete delusi anche se vi aspettate qualcosa simile al Cavaliere dei sette regni: assomiglia di più a una cronaca di arcimaestro, la narrazione è più simile al librone delle Cronache e, è ormai risaputo, il racconto rientrerà ampliato nel progetto editoriale di Fire and Blood, ovvero il GRRMarillon, la storia di Westeros e dei Targaryen dall'origine fino alla Ribellione di Robert.
Se avete fame di draghi e di informazioni su di loro... anche in questo caso resterete delusi: non c'è nulla di più di una cronaca di attacchi e morti.
Al momento il racconto è superfluo in quanto le sue parti principali si ritrovano nel Librone delle Cronache perciò se ne state meditando l'acquisto siete in tempo per ripensarci: non ne vale la pena, il solo vero motivo per l'acquisto può essere l'astinenza da prosa di Martin ma allora tanto vale rileggersi i libri del Trono o esplorare la parte fantascientifica della produzione letteraria di Giorgione.

domenica 11 febbraio 2018

Italia Longobarda di Stefano Gasparri - Per ridare dignità a 200 anni di storia italiana



Eccomi finalmente giunta al terzo e ultimo libro della sfida-Medioevo sui Longobardi.

Per una maggior godibilità filologica raccomando caldamente la lettura dello studio di Stefano Gasparri solo dopo la lettura di Storia dei Longobardi di Jarnut e ovviamente dopo Paolo Diacono, fonte primaria, seguendo così anche l’evoluzione degli studi sui Longobardiun filo temporale: Jarnut pubblica nel 1982, Gasparri trenta anni dopo nel 2012 e la prospettiva, vuoi per la nazionalità degli autori, vuoi per gli studi, le scoperte e le analisi di studiosi del popolo Longobardo è totalmente ribaltata.

Avevo già accennato qui di come la parentesi longobarda mi fosse sembrata non tanto un’epoca di barbarie e oscurità come per tanti secoli è stata descritta ma un punto di svolta epocale per l’Italia, perno del cambiamento tra la visione mediterranea e quella continentale del nostro Paese e con l’opera di Gasparri ho avuto piena conferma delle mie teorie.

I 200 anni di dominazione longobarda vengono visti da una prospettiva rivoluzionaria. Tabacco fu tra i primi a vedere in chiave positiva l’arrivo dei Longobardi in Italia, un punto di rottura con il passato che ha impresso un forte cambio di direzione alla penisola che prima aveva il suo baricentro nel Mediterraneo e poi fu sempre più tendente al Continente.

LE FONTI
Gasparri mette a confronto l’Editto di Rotari, unica fonte coeva del VII secolo con i ritrovamenti archeologici, pochi e maltrattati, i corredi funerari, i resoconti dei processi, gli atti catastali… lì dove la storiografia classica aveva affrontato il tema dei Longobardi solo tramite le fonti letterarie accreditate di Diacono, dei Liber pontificales e dell’Historia Francorum, ovvero fonti tarde e filtrate politicamente in senso anti-longobardo, Gasparri va oltre e mette alla prova le fonti classiche riuscendo più volte a scoprire i punti deboli, le storture e le manomissioni. E’ proprio vero che la storia la scrive chi vince, in questo caso vinsero i Franchi e il Papa e per più di un millennio la loro è stata l’unica versione.

L’INTEGRAZIONE
Studiosi come Jarnut hanno sempre lamentato le scarsissime tracce lasciate da questo popolo aspettandosi di trovare tra i reperti archeologici divisioni marcate di ciò che era longobardo o romanico senza considerare il fatto che forse l’integrazione tra Longobardi e Romanici aveva portato di fatto alla scomparsa degli elementi divisivi tanto che a pochi decenni dalla conquista non si riuscivano più a distinguere case romaniche da quelle longobarde, tombe romaniche da quelle longobarde… Jarnut sottolinea le differenze e divisioni tra i due popoli, Gasparri i tratti comuni e l’integrazione. Questo libro dimostra che il popolo italiano in quei due secoli combaciava con il popolo longobardo e che l’integrazione era stata abbastanza veloce, intuizione dimostrata anche dal fatto che il primo scritto longobardo, l’Editto di Rotari del 643, sia redatto in lingua latina.

IL RAPPORTO CON LE GERARCHIE RELIGIOSE
Altro aspetto molto interessante di questo studio è l’analisi delle gerarchie religiose che non furono affatto massacrate, profanate e smembrate come fanno credere sia Paolo Diacono sia i Liber Pontificalis coevi ma funsero da patteggiatori, interlocutori tra i Longobardi e il mondo bizantino. Se è vero che gli ecclesiastici di rango senatorio seguirono le corti bizantine e romane lasciando buona parte dei territori conquistati è anche vero che il clero medio-basso continuò la sua opera all’interno del mondo longobardo tanto che già venti anni dopo la conquista l’erede al trono Adaloaldo venne battezzato secondo il rituale cattolico.

E’ interessante l’analisi di Gasparri sulle relazioni tra le gerarchie religiose e i Longobardi: da un lato sottolinea come l’assenza di un clero “alto” che potesse fungere da consiglio del re abbia di fatto impedito al Regno longobardo di diventare quella potenza politica che diventò il regno franco pochi anni dopo con i Carolingi proprio grazie all’aristocrazia ecclesiastica. Questa mancanza è tangibile proprio nella letteratura coeva fatta soprattutto di atti giudiziari e codici di leggi. Mancano in toto, se si esclude L’Origo Gentis Langobardorum e Paolo Diacono, l’una perduta e l’altra redatta dopo la fine del Regno Longobardo, le cronache e le lettere, veri strumenti di propaganda politica come sia il papa sia i Carolingi hanno dimostrato in seguito. La mancanza di un consiglio esperto degli affari della Penisola e di una buona propaganda si noterà poi nelle divisioni interne del regno e nella mancanza di una dinastia reale forte come tra i Franchi, appoggiata dal papa e dal senato ecclesiastico e tutto ciò contribuirà purtroppo alla caduta del Regno.

Inoltre gli stessi re Longobardi, che nel diritto tenevano molto in considerazione il patrimonio, da Liutprando in poi agevolarono sempre più i lasciti a chiese e monasteri rendendoli di fatto sempre più forti, ricchi e influenti come istituzione… in poche parole hanno minato le proprie stesse basisi sono praticamente scavati la fossa da soli: l’istituzione del papato era praticamente ininfluente dopo la guerra gotica: il papa non era altro che il capo di un istituzione religiosa di stanza a Roma e sottoposto all’autorità del duca di Bisanzio. Poi Bisanzio si allontanò dall’Italia per vari motivi e i re longobardi non furono in grado di riempire il vuoto di potere venutosi a formare. Di fronte a questa incapacità altre due potenze presero il sopravvento: il Papa e Carlo Magno.

Il capitolo V del saggio narra la caduta o meglio narra di come è stata riportata la caduta del regno longobardo nei testi partendo ovviamente sempre dalla letteratura papale e carolingia ma dando anche ampio spazio a testimonianze di origine longobarda che ancora nel IX secolo parlavano di Desiderio e di Adelchi come eroi.

Grazie grazie grazie dunque a Stefano Gasparri che ci consegna una visione rivoluzionaria dei duecento anni del regno Longobardo collaborando così a gettare sempre maggior luce su quegli anni lontani nel tempo e resi oscuri da una storiografia redatta dai vincitori.

sabato 10 febbraio 2018

Arthur Miller: Uno sguardo dal ponte - Di fronte a una questione morale

Arthur Miller: Uno sguardo dal ponte

Sono sempre più convinta che le opere teatrali vadano viste e non lette. 
Il problema è che molte non vengono più portate in scena perciò la lettura è tutto ciò che ci rimane. 
E' una tragedia dalle tinte fosche, aleggia per tutta l'opera questa sensazione di morte e sconfitta che ricorda a tratti la tragedia greca per questa sensazione di tragico imminente. I protagonisti sono segnati sin dalle prime battute dal loro destino, la gioventù esuberante che si scontra con la rassegnazione e la possessività degli adulti, il desiderio di evadere e il desiderio di trattenere. Sembra di vederli sul palco, la traduzione rende tutta la tipicità di una lingua bastarda ia immigrati e la tensione cresce a ogni scena sommando gelosia, desiderio, possessione e accuse di omosessualità lanciate come una maledizione. Tra tutti la vera vittima è Marco che ha rinunciato a tutto per un brandello di speranza e che tutto perde a causa delle colpe di altri.
E alla fine un magone...

Siamo nel 1967. Siamo nella casa di immigrati italiani a New York. Gente che lavora duro, operai, scaricatori di porto con nomi italiani e appellativi inglesi. Hanno il permesso di soggiorno, Catherine è nata in America, frequenta l'ultimo anno di scuola e ha appena ricevuto una proposta di lavoro, Eddie fa l'operaio ed è riuscito a mettere da parte abbastanza denaro per ospitare due cugini della moglie Beatrice: Marco e Rodolfo. 
Clandestini.
I cugini vivono nell'appartamento neanche troppo nascosti in realtà: la mattina escono a cercare lavoro al porto, lavorano a giornata trattenendo qualche soldo per le spese personali e mandando il resto a casa dalla famiglia se c'è, altrimenti si va a teatro, si cerca di vivere un po' di quella vita americana che è un sogno per chi arriva da tanto lontano.
La vita americana è un sogno sì, un sogno perché in America c'è lavoro e Rodolfo non tornerebbe in Italia nemmeno con palate di soldi perché in Italia il lavoro non c'è

"RODOLFO: Ma che significa essere americano, scusa? Ma cosa credi, che nun li avemo puro in Italia i grattacieli, la luce elettrica? i stradi? le automobili?
'O lavoro nun avemo. Io vogghio diventare americano pi lavurari. Chista è l'unica meraviia 'cca: 'o lavuru!"

Sono trascorsi cinquanta anni dalla prima rappresentazione, i giovani italiani ormai non vanno più in America per fare gli operai o gli scaricatori di porto, ci vanno in vacanza o con una borsa di studio, il sogno è adesso di fare il ricercatore o di aprire una start-up o un ristorante. 
Altri vengono in Italia per fare i braccianti, i muratori, pagati due soldi e un calcio in culo, caricati sui furgoni di notte, portati nei campi tutto il giorno e riportati al punto di raccolta di sera. Quando va proprio bene lavorano in fabbrica, di nascosto anche lì e con i soldi dati in mano a fine giornata. Se poi all'ingresso della fabbrica arriva la pula c'è uno speciale bottone che la centralinista sa di dover premere e quando succede via! tutti a fuggir per campi. Almeno così funzionava dieci anni fa nella fabbrica del Nord-Est in cui ho lavorato qualche tempo come centralinista e sospetto funzioni ancora così lì e in molti altri posti.

Pensavo che pena per Marco! Per il suo sogno infranto! Beccato e arrestato. Dopo un breve processo verrà rispedito in Italia e non si sa se riuscirà a mantenere la sua famiglia... una moglie... tre figli.
Marco e Rodolfo li sento vicini, riesco a condividere il loro dramma...

Riuscirei a condividere lo stesso dramma se invece di Marco e Rodolfo si chiamassero Joussouf e Agim?

Onestamente non lo so.

Ed ecco che un semplice libretto sgraffignato di nascosto nella libreria di mia suocera mi pone di fronte a una questione morale. Non ero partita da qui quando ho iniziato, volevo probabilmente parlare di quanto sia difficile leggere un'opera teatrale e comprenderla fino in fondo e invece mi ritrovo a parlare di immigrazione, sogni, integrazione...
Vado per curiosità a cercare immagini su "Uno sguardo dal ponte", raffino la ricerca su "teatro" e trovo la locandina con il volto di Sebastiano Somma per il teatro o Raf Vallone per il cinema e mi chiedo se sia stata portata in scena la stessa pièce in Italia con attori di colore di recente.
Ma in Italia ci sono attori di colore? c'è uno Joussouf che fa tournée di teatro? Un Agim in tv?
Negli Stati uniti nel 1967 c'erano già Frank Sinatra e Dean Martin, in Italia sta muovendo i primi convincenti passi Ermal Meta perciò forse non siamo tanto lontani da un'idea di integrazione che coinvolga non solo il mondo del lavoro ma anche quello dell'arte. Forse non siamo tanto lontani dal vedere a teatro Uno sguardo dal ponte in cui i protagonisti si chiamino Joussouf e Agim. Meglio, molto meglio questo piuttosto che una Carmen che ammazza Escamillo in nome della lotta contro la violenza sulle donne.
Forse non siamo lontani... mi chiedo come reagiremo.

domenica 28 gennaio 2018

Leviathan Il Risveglio - ci diamo alla fantascienza adesso!!!


Ufff… da dove comincio?

Dall’inizio, nella maggior parte dei casi è la scelta migliore.

Ho iniziato a leggere questa saga per vari motivi:

Primo su tutti la serie televisiva The Expanse: coinvolgente, begli intrecci, personaggi interessanti, curiosità nell’evoluzione del soggetto. Arrivata alla fine della seconda stagione e in attesa della terza mi era venuta la curiosità di sapere come veniva reso lo stesso soggetto su carta senza gli effetti speciali. La serie si basa su una saga che si dipana in nove libri, la prima stagione copre circa tre quarti del primo che termina a metà della seconda stagione, sette libri sono stati pubblicati, ne mancano due ma gli autori Daniel Abraham e Ty Franck vanno avanti a tappe forzate per cui i lettori dovrebbero senza problemi riuscire a vedere la fine dell’opera.
Uno dei due autori, Ty Franck, è il celeberrimo aiutante tuttofare di Giorgione Martin, quello delle Cronache del Ghiaccio e del fuoco, l’uomo che ha aiutato Martin a organizzare il suo lavoro rendendolo meno incasinato. Lo stesso Martin dice di The Expanse: “Da troppo tempo non si vedeva una space opera così grandiosa”, in più, oltre ai romanzi sono previste tutta una serie di novelle che esplorano il mondo di The Expanse al di là dell’intreccio principale.
Terzo motivo: l’opera è strutturata in POV, punti di vista, mi piace questa tecnica, vista e apprezzata nell’opera di Martin permette una visione soggettiva degli eventi con i suoi pregi come l’approfondimento della psicologia del personaggio e i suoi difetti ovvero la visione parziale degli eventi laddove per parziale intendo sia UNA parte che DI parte. E’ l’evoluzione del romanzo epistolare, ha il suo fascino.

L’unione dunque di un prodotto televisivo di alto livello, di un sostrato letterario organizzato e di un padrino del calibro di Martin mi hanno reso indispensabile leggere almeno i primi due libri: “Leviathan. Il Risveglio” e “Caliban. La Guerra”.

Terminato il primo libro ammetto di essere un pochino delusa e spiegherò di seguito i motivi ma dirò anche cosa ho trovato interessante per permettere magari a chi ha visto la serie e vuole leggere il primo libro di farsi un’idea.

I POV del primo libro sono solo due: Miller il poliziotto cinturiano e Holden il comandante terrestre della Rocinante, questo taglia fuori dall’opera tutti i riferimenti alla politica interplanetaria che a mio parere costituisce il 50% della goduriosità della serie TV e che si percepisce solo nelle scene in cui è presente Fred Johnson.

Holden nel libro è un vero coglione! Se nella serie TV appare come una sorta di Jon Snow intergalattico, il Giusto, il Buono, nel libro è da mani nei capelli e non riesco a capire come possa essere comandante della Rocinante. All’eccessivo buonismo e idealismo dell’Holden televisivo si aggiunge la totale incapacità di prendere decisioni sensate senza il supporto psicologico di Naomi o Miller che giganteggiano di fronte a lui. E le decisioni che Holden prende in autonomia sono di una inconsapevolezza imbarazzante tanto da poter essere considerate la causa dello scoppio della guerra tra Terra, Marte e Fascia. Emblematiche sono le parole di Miller a Holden (POV Miller 36) “chiediti invece che cosa farebbe Naomi” come a volergli suggerire di non prendere più decisioni in autonomia e di ascoltare il suo vice Naomi, molto più intelligente e saggia di lui.

Fortunatamente Miller è dipinto molto bene, è un personaggio complesso, tormentato, visionario, vocato al suicidio nel momento in cui trovano il corpo di Julie Mao. Era un brav’uomo? Fred Johnson direbbe “No, ma sapeva fare il suo lavoro” o meglio, era tornato a fare bene il suo lavoro nel momento in cui aveva ritrovato un motivo per farlo: lavorare come poliziotto per la compagnia privata Star Helix su Ceres aveva negli anni atrofizzato la sua capacità di discriminare il bene dal male, il giusto dallo sbagliato, trasformandolo in un pessimo poliziotto e in un uomo ancora peggiore. Lo scopo della polizia su Ceres non era di far rispettare le leggi ma di mantenere lo status quo a qualsiasi prezzo, anche a costo di collaborare con le associazioni malavitose, è conseguenza logica che con una tale gestione dell’ordine anche i parametri morali debbano essere rivisti se si vuole sopravvivere allo schifo della quotidianità. Julie Mao, il suo caso, la giovane ricca terrestre che abbandona tutti gli agi per combattere per il popolo abusato e sfruttato della Fascia, gli fa mettere in discussione tutta la sua vita, la sua scala di valori, le sue priorità. 

Il tema ricorrente del primo libro è quello del Don Quisciotte che combatte contro i mulini a vento, Miller si riferisce più volte a Holden in questi termini ma forse il vero Don Quisciotte è proprio Miller che trasforma una ragazzina terrestre nel suo ideale proprio come il cavaliere di Cervantes aveva trasformato una contadinotta in Dulcinea, uno scopo per vivere, un ideale per morire.

Un accenno doveroso devo farlo anche alla Rocinante. 

Rocinante??? Ma davvero? Posso comprendere le esigenze di resa e traduzione per la serie TV ma Rocinante è un abominio: il cavallo di Don Quisciotte è Ronzinante nella traduzione italiana, Rocinante in lingua originale spagnola ma se si traduce in italiano è doveroso a mio avviso chiamarla con il suo nome italiano: Ronzinante aggiungerebbe anche una certa ironia alla storia visto che un ronzino è un cavallo malandato mentre la nave di Holden è supermegafantastica, dotata di tutto il meglio in quanto ad armi, cambusa, infermeria, sistemi di tracciamento e tutte le altre fagianate spaziali da nerd che onestamente ignoro. Che poi a voler tirare per le lunghe le associazioni di nomi si potrebbe pure tradurre Miller in Mugnaio (mulini avento?) e Holden… beh, il giovane Holden no? Ma forse sarebbe tutto molto stiracchiato così.

L’altro personaggio reso bene è ovviamente Naomi, è strafiga, è intelligente, arguta, umana, ha un cervello che macina dati velocemente ed estrae conclusioni accurate anche e soprattutto sotto stress, si vorrebbe essere lei, anche Holden probabilmente vorrebbe essere lei, sicuramente se la vorrebbe fare sin dal momento in cui esplode la Canterbury e Naomi rimane l’unica donna dell’equipaggio. Povero Holden… oltre a sembrare un bamboccione idiota è anche arrapato per la maggior parte del libro.

Dal punto di vista della scrittura purtroppo il binomio Abraham-Franck sotto lo pseudonimo James S.A Corey sembra aver preso da Martin solo il peggio. Se ci si aspetta qualcosa di simile nella resa della psicologia dei personaggi, nella descrizione dei momenti di vuoto e attesa, nell’esplorazione dell’animo umano mettiamoci una pietra sopra: non ci si avvicina nemmeno. Da Martin sembra aver ereditato la pochezza del vocabolario e la ricorsività di certe similitudini come “capelli sott’acqua” che ricorda molto i capezzoli sull’armatura di Martin, similitudine che ricorre in continuazione fino a risultare stantia. Inoltre gli autori sembrano essere particolarmente ossessionati dai gatti visto che metafore su gatti e gattini sono spalmate lungo tutta l’opera con una ridondanza che sfiora il ridicolo.

Per ultimo lascio un accenno alla protomolecola, al termine del primo libro si ha qualche indizio su cosa possa essere, vedremo in seguito come evolverà ma in questo momento mi ricorda molto l’Unico Anello di Tolkien. C’è un passo, POV 43 Holden, in cui Holden dice a Miller “Dresden e i suoi amichetti della Protogen pensavano di poter decidere chi vive e chi muore. Ti dice niente?” A me qualcosa dice. Anche Miller si arrogherà il diritto di decidere chi potrà vivere e chi morire e lui stesso ne subirà le conseguenze, come Gollum macchiatosi di assassinio sarà destinato ad avere una parte fondamentale nell’impresa fino a morire per essa, si renderà strumento di quella che Tolkien chiamava Provvidenza, strumento del destino o della Storia. Cosa è la Protomolecola lo vedremo, per ora è un’arma, uno strumento che tutti vogliono per portare avanti questa politica anni Settanta della MAD: distruzione mutua assicurata. Se posso esprimere un desiderio confesso di auspicarne la distruzione proprio come per l’Anello di Tolkinen: è uno strumento troppo potente che darebbe troppo potere al possessore anche utilizzandolo a fin di bene. Gandalf stesso e Galadriel provarono terrore di fronte alla tentazione dell’anello pur con tutta la loro saggezza così lo affidarono a Frodo, un puro, un semplice (un coglione?). Holden/Frodo e Naomi/Sam… si vedrà come proseguirà questa Compagnia della Protomolecola. 

Al secondo libro della saga darò sicuramente una possibilità, dopodiché tirerò le somme e deciderò se varrà la pena continuare in parallelo libri e serie o se continuerò a seguire solo la serie TV.

Alla prossima 😊

PS: mi piace ricordarli insieme, attorno a una lasagna marziana