Gregor Samsa una mattina si sveglia e si scopre trasformato in un enorme insetto.
Gregor è uno che si è sempre dato da fare per la famiglia: da quando la ditta del padre è fallita ha iniziato a lavorare duro per garantire ai suoi genitori e alla sorella una vita dignitosa.
È il solo in casa che lavori: la sorella è molto giovane, la madre bada alla casa e il padre trascorre le sue giornate pigre in casa.
Una mattina Gregor Samsa si sveglia e la prima cosa che pensa è che farà tardi al lavoro, pensa a quali treni gli restino da prendere e a cosa dire al suo datore di lavoro per giustificare la situazione.
Finalmente apre la porta e trova la sua famiglia ad attenderlo insieme al suo datore di lavoro, quest'ultimo fugge disgustato mentre il padre lo ricaccia violentemente nella sua stanza e la madre giace svenuta per terra.
Dei tre solo la sorella, l'amata sorella, prova ad aiutarlo davvero: gli porta il cibo nella stanza, gli toglie alcuni mobili che potrebbero impacciarlo nei movimenti ma non vuole vederlo e lui, per delicatezza, si fa trovare sempre coperto da un lenzuolo: non vuole turbarla con il suo aspetto.
Con il trascorrere del tempo anche la sorella lo abbandonerà: continuerà a portargli cibo con sempre minor cura, la sua camera non verrà più riordinata anzi, diventerà uno sgabuzzino dove gettare alla rinfusa tutto quel che in casa non si desidera più, compresa la spazzatura. E alla fine sarà proprio la sorella a parlare ai suoi genitori della necessità di porre fine a quella situazione con ogni mezzo.
Nel frattempo, spinti dalla necessità di guadagnare qualcosa, tutti e tre i familiari inizieranno a lavorare riacquistando quella dignità che il loro parassitismo aveva trascurata.
Nascosto alla vista Gregor prova a comunicare con la sua famiglia ma senza successo: la sua voce è "mescolata a un irreprimibile, lamentoso pigolio che lasciava alle parole la loro chiarezza solo nei primissimi istanti per distruggerla poi a tal punto nella risonanza da far dubitare."
Gregor non riconosce la propria voce e la sua famiglia neanche lo sente. L'incomunicabilità è totale.
Ho trovato La Metamorfosi angosciante, terribilmente angosciante. Mi sono immaginata questo commesso che si sbatte da mattina a sera che un giorno smette di darsi da fare... Non è davvero una rinuncia volontaria ma mi dà l'impressione che sia suo desiderio inconscio porre fine a questa esistenza da carcerato: nel suo rimarcare la sua attività contrapposta al parassitismo dei suoi è come se ci fosse un intento punitivo, tipo "vediamo come ve la cavate senza di me" e la verità è che se la cavano e se la caveranno benissimo e tutti i suoi sacrifici risulteranno inutili, il suo intento di svegliarli dannoso solo a sé stesso.
La disumana indifferenza dei suoi familiari vince e Samsa verrà prima accantonato, se ne libereranno e infine, probabilmente, verrà dimenticato. Questo era il finale che non piaceva a Kafka e che è invece perfetto: Gregor si riteneva necessario, indispensabile... La verità è che nessuno lo è davvero: che l'uomo esista o no è indifferente.
L'uomo non ha più valore come individuo, lo ha fintanto che rimane ingranaggio di una macchina e nel momento in cui quell'ingranaggio si spezza, l'individuo diventa inutile.
La stessa utilità sociale che l'individuo trova nel suo essere parte dell'ingranaggio, quel senso di appartenere a qualcosa di importante, di contribuire a qualcosa di importante, è esso stesso una prigione dalla quale non si può fuggire se non con la rinuncia alla propria umanità, agli affetti, alle relazioni che legano tra loro gli esseri umani.
Gregor spezza quel legame con la trasformazione in insetto e la spezza fisicamente e verbalmente: le sue parole non vengono percepite dai suoi familiari, è il terrore più grande:q di non essere compresi, è l'isolamento totale.
Eppure la fine di Gregor non è tragica: tragica è la sua esistenza. Kafka ha riservato a Gregor pace e riconciliazione e la serenità che gli è mancata in vita. Il peso della sua condizione è in quel senso di claustrofobia e di isolamento viene riversato sul lettore che si interrogherà sul significato di questa metamorfosi, sul suo essere ingranaggio o insetto, sull'efficacia della comunicazione.
Il disagio dell'individuo che si scopre parte del meccanismo verrà ricordato, anni più tardi, da un altro grande, grandissimo interprete dell'incomunicabilità e dell'assurdo: Albert Camus. Ecco, bisogna immaginare Gregor, alla fine, felice
Il Grande Gatsby è una casa dei sogni costruita mattone dopo mattone, con pazienza e caparbia, è il prodotto dell'illusione, la riscrittura del passato per riportare in dietro il tempo e rimediare agli errori della storia.
È il romanzo dell'inquietudine, il sogno americano infranto, sfracellato dal ricco cinismo e dalla sbadataggine di chi sogni non ha mai avuto perché possiede tutto dalla nascita.
Povero Gatsby, sei un illuso!
Il mondo esisteva senza di te, continuerà ad esistere dopo di te e tu non sei stato altro che un breve passatempo, una festa finita in fretta e ora restano solo bicchieri troppo grandi da lavare, scarpe dimenticate e un pianoforte muto.
Povero Gatsby!
Hai vissuto in un sogno troppo grande per te, per chiunque, non hai capito le regole del gioco e sei stato spazzato via come cenere.
Per comprendere pienamente questo romanzo si deve fare comprendere la geografia dei luoghi: East Egg e West Egg. Sono due penisole di Long Island che si specchiano l'una nell'altra: Da una parte East Egg, residenza dei vecchi ricchi che possono contare su una fortuna costruita nel tempo dagli antenati, dall'altra West Egg, territorio dei nuovi ricchi.
Daisy, la bella Daisy che ha il suono delle monete nella voce, vive a East Egg con il marito e la figlia in una casa bellissima circondata da un parco infinito, affacciata sulla baia, sul pontile della villa brilla una luce verde.
È proprio di fronte alla casa di Daisy, di fronte a quella luce verde che brilla tutta la notte, che Jay Gatsby decide di andare ad abitare, non è di Long Island: è arrivato da poco ma fa di tutto per farsi notare organizzando feste sfarzose e infinite cui partecipa tutta la New York che conta.
Il narratore, Nick Carraway, è anche lui arrivato da poco a new York e si stabilisce in una modesta casa confinante con quella di Gatsby, è un lontano cugino di Daisy e sarà proprio lui lo strumento che Gatsby utilizzerà per avvicinarsi a lei.
È importante visualizzare la geografia del luogo, visualizzare Gatsby in piedi davanti alla baia, le braccia tese nella notte in direzione della luce verde davanti a casa di Daisy
"La sagoma di un gatto oscillò nella luce lunare, e voltando il capo per guardarlo mi accorsi che non ero solo: ad una ventina di passi una figura era sorta dall’ombra del palazzo del mio vicino fermandosi in piedi, con le mani in tasca, a guardare i granelli argentei delle stelle. Qualcosa nei movimenti disinvolti e nella salda presa dei piedi sul prato mi fece capire che quello era il signor Gatsby, uscito a verificare quale fosse la porzione del cielo locale che gli spettava. Decisi di chiamarlo. La signorina Baker lo aveva nominato a cena e questo sarebbe servito da presentazione. Ma non lo chiamai, perché d’un tratto egli diede una prova della sua soddisfazione nel sapersi solo: tese stranamente le braccia verso l’acqua oscura e, per quanto fossi lontano da lui, avrei giurato che stava tremando. Senza volerlo diedi un’occhiata al mare e non distinsi niente all’infuori di un’unica luce verde, minuscola e lontana, che avrebbe potuto essere l’estremità di un molo."
Jay Gastby non è nessuno, viene dal niente, dopo qualche anno trascorso al servizio di un magnate americano si ritrova, alla sua morte, gettato in strada come un cane, incontra Daisy a Chicago, la bella Daisy con il suono delle monete nella voce, il suo palazzo principesco, un sogno. Un sogno da cui si deve separare a causa della guerra.
Per cinque anni, dopo l'esperienza in guerra, Jay Gatsby lavorerà per raggiungere quel sogno, quel palazzo, quella voce.
"Lassù, nel palazzo bianco, la figlia del re, la fanciulla dorata"
Con meticolosità infinita si costruisce, costruisce la propria ricchezza e il proprio passato, manipola la realtà per edificarsi a dio, un dio di cartapesta, venerato finché risplende, una favola della modernità con i suoi valori squilibrati e zoppi.
Contemporaneamente ricostruisce il suo sogno, la fanciulla dorata nel castello diventa il simbolo di tutto il desiderio, le monete nella sua voce, la luce verde in fondo al pontile, sono oggetti fatati che portano a lei, Daisy viene trasfigurata i un ideale di felicità, coronamento del successo.
Al suo arrivo a West Egg le voci si rincorrono sul suo conto: ha ucciso un uomo, era una spia dei tedeschi, ha studiato ad Oxford, è un contrabbandiere, a Jay non importa, che parlino pure se questo può contribuire a portarla da lui.
La sua casa risplende di notte nelle luci delle feste come un faro segnalatore, è questione di tempo e lei verrà, come un ragno Gatsby si apposta ai bordi della sua ragnatela e attende la preda.
E la preda, infine, giunge da lui
"Quando andai a salutare vidi che era ritornata sul viso di Gatsby l’espressione stupita, come se gli fosse nato un lieve dubbio sull’entità della felicità presente. Quasi cinque anni! Perfino in quel pomeriggio dovevano esserci stati momenti in cui Daisy non era riuscita a stare all’altezza del sogno, non per sua colpa, ma a causa della vitalità colossale dell’illusione di lui che andava al di là di Daisy, di qualunque cosa. Gatsby vi si era gettato con passione creatrice, continuando ad accrescerla, ornandola di ogni piuma vivace che il vento gli sospingesse a portata di mano. Non c’è fuoco né gelo tale da sfidare ciò che un uomo può accumulare nel proprio cuore. Quando lo fissai, si riprese visibilmente. Teneva fra le sue una mano di lei e, quando Daisy gli disse qualcosa all’orecchio, le si avvicinò in uno slancio di emozione. Credo che quella voce lo avvincesse col suo calore fluttuante e febbrile soprattutto perché non poteva superare il sogno: quella voce era un canto immortale. Mi avevano dimenticato, ma Daisy alzò lo sguardo e tese la mano; Gatsby non mi riconobbe affatto. Li guardai ancora una volta e mi restituirono lo sguardo, remoti, dominati da una vita intensa."
Gatsby è a un passo dalla felicità, tende la mano, la afferra, è sua.
Gatsby ha vinto, ha reinventato la storia, sé stesso, ha riportato indietro il passato a quell'ultimo bacio e adesso tutto può ricominciare come se il tempo non fosse mai esistito.
Illuso!
Tu non sei niente Jay Gatsby, sei una parentesi nella storia, una festa volgare, un tendone da circo che presto cambierà città.
Tu non appartieni a questo mondo, non appartieni al mondo della principessa dorata: quello è il vero mondo, il tuo non è che una volgare parodia, è il riflesso sulla parete della caverna, la realtà è al di là di quella baia, stanca, annoiata, insensibile, imperfetta.
E la realtà ne ha avuto a sufficienza di te, dei tuoi completi kitsch, delle tue feste esagerate, della musica e delle luci.
Hanno giocato, si sono divertiti ma adesso basta, i giochi vengono riposti in soffitta, i domestici danno una spazzata alla bella casa sulla baia e riportano tutto in ordine in attesa del prossimo balocco.
Alla fine ne escono tutti sconfitti, chi di più, chi di meno, nessuno vince davvero, resta un ultimo feroce ricordo: Jay Gatsby nella notte, con le braccia tese sulla baia verso la luce verde all'estremità del mondo di Daisy.
Eccolo il Nuovo Mondo davanti a noi, la vera tragedia americana, l'illusione di poter cambiare sé stessi e il proprio passato e venire invece ributtati insietro, come barche contro corrente.
Lessico Famigliare di Natalia Levi Ginzburg nasce dall'urgenza di raccontare il vero.
La tessitrice di storie inventate si rese conto che in ogni sua opera di fantasia emergeva il lato biografico, emergeva involontariamente ma con prepotenza. C'era tutto un mondo di ricordi, di parole, di esclamazioni che chiedeva di essere raccontato e ascoltato.
Ma chi lo avrebbe ascoltato?
"C'erano allora due modi di scrivere, e uno era una semplice enumerazione di fatti, sulle tracce d'una realtà grigia, piovosa, avara, nello schermo d'un paesaggio disadorno e mortificato; l'altro era un mescolarsi ai fatti con violenza e con delirio di lagrime, di sospiri convulsi, di singhiozzi. nell'un caso e nell'altro, non si sceglievano più le parole; perché nell'un caso le parole si confondevano nel grigiore, e nell'altro si perdevano nei gemiti e nei singhiozzi. Ma l'errore comune era sempre credere che tutto si potesse trasformare in poesia e parole. Ne seguì un disgusto di poesia e parole, così forte che incluse anche la vera poesia e le vere parole, per cui alla fine ognuno tacque, impietrito di noia e di nausea."
Natalia aveva una folla di parole, una folla di ricordi.
Nel 1962 immagina di stendere un breve saggio dove enumerare o fissare nel tempo e sulla pagina le frasi della sua infanzia, queste frasi dovevano essere illustrate da brevi didascalie di vita familiare. Ma come ridurre a brevi vignette i ricordi di una vita?
"sulla traccia di quelle frasi, parole e storie, m'era venuto l'impulso di ricercare e far rivivere sia l'atmosfera in cui venivano pronunciate, sia le persone che usavano pronunciarle: e cioè l'atmosfera di casa mia, e le figure dei miei genitori, dei miei fratelli, dei loro amici, e degli amici miei"
Quello che Natalia non desidera è parlare di sé, delle sue sensazioni infantili, di cosa lei ha provato o sentito. Non vuole che sia un romanzo intimista di memorie: Natalia sarà solo occhi e orecchie che registrano, non con fedeltà ovviamente, con amore, con partecipazione e senza giudizio.
In tre mesi il breve saggio diventa un romanzo, un non-romanzo, un romanzo nuovo... indefinibile.
Lessico famigliare è un album di famiglia attraverso il linguaggio e intessuto con l'imperfetto, questo tempo ricorsivo che evidenzia la continuità delle azioni, delle storie, il tempo di Proust, della ripetitività, degli usi. Il tempo della famiglia e dei ricordi, il tempo dei giochi dei bambini.
Un velo di malinconia ricopre i ricordi, tanto più annebbiati quanto più vicini a lei, più legati alle sue vicende personali. Un velo malinconico per un tempo perduto che non potrà mai esser ritrovato: la guerra, la violenza, la debolezza lo hanno reso irrecuperabile.
Tuttavia lessico Famigliare non è un libro malinconico: è allegro, a tratti comico perché in ogni famiglia ci sono quegli eventi di allegria e comicità assoluti, perché la famiglia è il seno caldo e sussultante della nostra prima felicità, il rifugio sicuro della memoria quando il presente non è il futuro che avremmo desiderato.
Ci sono ricordi di travolgente comicità come il ricordo de "Il baco del calo del malo" o i modi burberi e contraddittori di papà Levi, o le mille imperfezioni di mamma Lidia che durante una perquisizione dei fascisti in casa si preoccupa di nascondere gli scontrini delle spese affinché il papà non ne venga a conoscenza
"Io ebbi da quegli agenti il permesso di andare a scuola; e mia madre, nel vano d'una porta, m'infilò dentro la cartella le buste dei suoi conti, perché aveva paura che nel corso della perquisizione cadessero sotto gli occhi a mio padre, e che lui la sgridasse perché spendeva troppo."
Oppure i ricordi delle discussioni tra mamma e papà Levi, veri protagonisti del libro, a proposito della politica in una conversazione che è tutta da ridere ed è tutta da amare:
– Stupido! m'ha detto che son troppo di destra! Mi trattava come se fossi una democristiana! – Ma è vero che sei di destra! – diceva mio padre. – Hai paura del comunismo. Ti lasci metter su dalla Paola Carrara! – Non mi piacciono a me i comunisti, – diceva mia madre. – Mi piacevano i socialisti, quelli d'una volta. Turati! Bissolati! com'era carino Bissolati! Ci andavo, la domenica, col mio papà! – Forse questo Saragat non è tanto male. Peccato che ha una faccia che non sa di niente! – diceva ancora mia madre, e mio padre tuonava: – Non dir sempiezzi! Non crederai mica che sia socialista Saragat! Saragat è di destra! Il socialismo vero è quello di Nenni, non quello di Saragat! – Nenni non mi piace! Nenni è come se fosse comunista! dà sempre ragione a Togliatti! Io quel Togliatti non lo posso soffrire! – Perché sei di destra! – Io non sono né di destra, né di sinistra. Io sono per la pace! E usciva, col suo passo di nuovo giovane, ritmato, glorioso, i capelli ormai bianchi al vento, il cappello in mano. Si fermava sempre un po' a casa di Miranda, la mattina quando andava a ordinare la spesa, e il pomeriggio, quando andava al cinematografo. – Hai paura dei comunisti, – le diceva Miranda, – perché hai paura che ti levino via la serva. – Certo se viene Stalin a tirarmi via la serva, lo ammazzo, diceva mia madre. –
Non c'è una vera narrazione, la scansione temporale, la storia che scorre fuori e dentro le mura di casa Levi la ricostruiamo mettendo insieme i fragmenti dei ricordi con le nozioni di storia apprese a scuola: il nascondiglio di Turati a casa Levi,
"vecchio, grande come un orso e con la barba grigia tagliata in tondo" e la fuga in motoscafo aiutato da "due o tre uomini con l'impermeabile; io, di loro, conoscevo soltanto Adriano (Olivetti). (...) Aveva occhi spaventati, risoluti e allegri; gli vidi, due o tre volte nella vita, quegli occhi. Erano gli occhi che aveva quando aiutava una persona a scappare, quando c'era un pericolo e qualcuno da portare in salvo".
Quello sguardo di Adriano Olivetti cui Natalia deve la salvezza dei suoi cari e di sé stessa torna, come un leitmotiv, più volte nelle parole dell'autrice, anche l'ultima volta, nel momento del terrore, quando Leone era agli arresti a Roma
"Io ricorderò sempre, tutta la vita, il grande conforto che sentii nel vedermi davanti, quel mattino, la sua figura che mi era così familiare, che conoscevo dall'infanzia, dopo tante ore di solitudine e di paura, ore in cui avevo pensato ai miei che erano lontani, al Nord, e che non sapevo se avrei mai riveduto; e ricorderò sempre la sua schiena china a raccogliere, per le stanze, i nostri indumenti sparsi, le scarpe dei bambini, con gesti di bontà umile, pietosa e paziente. E aveva, quando scappammo da quella casa, il viso di quella volta che era venuto da noi a prendere Turati, il viso trafelato, spaventato e felice di quando portava in salvo qualcuno."
Adriano Olivetti
L'arresto di Einaudi e Pavese e l'orgoglio di mamma e papà Levi di sapere loro figlio Alberto in carcere insieme a persone tanto da bene.
– L'han messo dentro con quelli della «Cultura»! Lui che legge soltanto «Le Grandi Firme»! – diceva mio padre. – Doveva dare l'esame di biologia comparata! Adesso non lo darà mai più. Non si laurea più! – diceva a mia madre nella notte.
E ancora la fuga di Mario, gettatosi in acqua per sfuggire alle guardie di dogana mentre trasportava volantini antifascisti
Mia madre, ogni momento, giungeva le mani e diceva, tra felice, ammirata e spaventata: ⁃ In acqua, col paltò!
È di una dolcezza disarmante, quella dolcezza che porta immediatamente il sorriso sulle labbra e le lacrime agli occhi.
Natalia non si sforza mai di far capire al suo lettore di chi sta parlando: nomi e cognomi compaiono solo se strettamente necessari come nel caso degli Olivetti o di Pavese ma non sono necessari, non vuole ostentare le sue conoscenze, non vuole apparire come quella che è nata e cresciuta al centro della vita culturale torinese: Einaudi non è mai citato se non come "l'editore", non dice che suo padre era il professore che avviò la Levi Montalcini, Dulbecco e Luria sulla strada del Nobel, non dice chi è quella Margherita da cui dovrebbe andare il padre a chiedere intercessione per la liberazione del figlio Alberto
"Mio padre però, Margherita non voleva sentirla nominare. - "Figurati se vado da Margherita! Non ci vado! Non mi sogno neanche! - Questa Margherita aveva scritto, anni prima, una biografia di Mussolini; e a mio pare il fatto che ci fosse, tra le sue cugine, una biografa di Mussolini, sembrava inaudito."
Quella Margherita è la Sarfatti, nata Grassini e cugina di papà Levi, giornalista, socialista, scrittrice, critica d'arte, direttrice, insieme ad Anna Kuliscioff, della rivista "La difesa delle lavoratrici", biografa e amante di Mussolini, di qui la ritrosia di papà Levi a chiederle un favore.
Un altro personaggio misterioso viene evocato verso la fine del libro, mi sono incaponita a voler scoprire la sua identità:
"Dai Balbo in pianta stabile c'eran sempre tre suoi
amici: uno piccolo coi baffetti, uno alto che rassomigliava un poco, nel viso, a Gramsci, e un altro
roseo e ricciuto, che sorrideva sempre. Quello che sorrideva sempre, venne poi a lavorare nella casa
editrice, ebbe l'incarico di occuparsi della collana scientifica: e sembrava una cosa ben strana, non
risultando che lui si fosse mai occupato di alcuna forma di scienza; ma evidentemente riusciva ad
occuparsene bene, perché conservò per anni quel posto, e anzi divenne poi il direttore di quella collana,
sempre con quel suo sorriso mite, disarmato, triste, sempre spalancando le braccia e affermando di non
sapere nulla di scienza; infine se ne andò e mise su una casa editrice di libri scientifici per conto suo."
È Paolo Boringhieri, cui Einaudi, per far fronte a una crisi finanziaria, propose di acquistare l'ESE, la Edizioni Scientifiche Einaudi.
Il Cafi, amico del fratello Mario a Parigi è in realtà il saggista Andrea Caffi, l'attore Suess Aja Cawa è in realtà Sessue Hayakawa de Il ponte sul fiume Kwai, per questi storpiamenti la Ginzburg fu rimproverata in quanto non sufficientemente aderente alla realtà storica. Ma cosa importa?!
Cosa importa se i loro nomi non sono corretti? Quelli sono nomi della memoria, non della storiografia. Come quando da piccoli anche noi si cantava "O wendesenst" invece di "Oh when the Saints": tutti i personaggi che compaiono nel libro compaiono solo in quanto legati a quel lessico famigliare che fa da filo conduttore e lessico famigliare è anche un nome storpiato o incompleto o mai pronunciato.
Pavese, Ginzburg, Antonicelli e Frassinelli a San Grato di Sordevolo, Biella
Lessico famigliare sono i ricordi legati a Cesare Pavese che
"A mezzanotte agguantava dall'attaccapanni la sua sciarpa, se la buttava svelto intorno al collo;
e agguantava il paltò. Se ne andava giù per il corso Francia, alto, pallido, col bavero alzato, la pipa
spenta fra i denti bianchi e robusti, il passo lungo e rapido, la spalla scontrosa."
"Pavese, quella primavera, era solito arrivare da noi mangiando ciliege. Amava le prime ciliege, quelle
ancora piccole e acquose, che avevano, lui diceva, «sapore di cielo». Lo vedevamo dalla finestra
apparire in fondo alla strada, alto, col suo passo rapido; mangiava ciliege e scagliava i nòccioli contro i
muri con un tiro secco e fulmineo. La sconfitta della Francia, per me, rimase legata per sempre a quelle
sue ciliege, che arrivando ci faceva assaggiare, traendole a una a una di tasca con la mano parsimoniosa
e scontrosa."
A Cesare pavese sono legate pagine struggenti e intense tessute con quell'affetto che mai si palesa nel parlare, invece, del marito Leone. Non perché amasse Pavese più di suo marito ma per quel senso di sconfinato pudore con cui Natalia ha voluto circondare e proteggere le sue mozioni e, forse, per il rimpianto di non averlo potuto salvare.
Lessico famigliare sono fotografie di espressioni care, istantanee rubate quando il soggetto non guarda e che restano sul comodino della memoria a farci compagnia, prive di un vero ordine temporale se non quello che il ricordo affida loro, prive di esattezza, prive della data scritta sul retro.
Là dove l'autore colto aggiunge e raffina ed espande, Natalia ha limato, sottratto, celato consegnandoci un flusso di memoria ininterrotto e circolare come il grembo materno dal quale tutti deriviamo.
Dopo i primi quattro episodi dell'ottava stagione sto disperatamente cercando un senso allo scempio: a ogni episodio mi dico "Beh! non è male!" ma poi ripasso scena per scena e ritrovo il nulla cosmico e tutto il dramma degli estranei e la paura per la lunga notte vengono liquidati con le parole di Davos a Tyrion sul dio della luce: "Facciamo il suo gioco, combattiamo le sue battaglie e vinciamo e poi...He fucks off, sparisce". Come a dire che non ci saranno spiegoni: non ne sono capaci.
Quindi, nell’eterna attesa che Giorgione Martin dia alle stampe il sesto libro delle Cronache cerco di darmelo io lo spiegone: provo a dare un senso a quanto ho visto ricercandolo nei temi assoluti perché nella serie TV davvero uno scopo sembra non esserci più, così come non c'è più trama, non c'è più storia, non ci sono più dialoghi e tutto sembra ricalcare lo scempio di Dorne.
Per chi è di fretta metto subito la teoria così non sarà obbligato a leggersi tutto il post, chi è curioso di sapere come ci sono arrivata può procedere con calma, magari sorseggiando un caffè.
TEORIA:
Arya Stark non ha eliminato il vero cattivone della saga ma solo il suo strumento, Bran è il vero cattivone: questa storia dell'immortalità e della conoscenza universale lo devasta e vuole porvi fine a qualunque costo, per questo ha creato gli Estranei, per ucciderlo o eventualmente uccidere tutto il genere umano compreso Bran o solo Westeros. La missione di Jon non si è ancora compiuta: sarà lui a uccidere Bran. Jon è Azor Ahai, evviva evviva.
Dimenticavo!
Sul trono di spade non siederà nessuno perché verrà distrutto.
Se avete qualche minuto da dedicare alla spiegazione continuate a leggere.
Il caso vuole che abbia appena terminato la lettura dell'Aleph di Borges, uno dei più grandi scrittori di letteratura fantastica e, per una fan delle Cronache del ghiaccio e del fuoco, vi si trovano passi che è difficile non ricondurre all'amata saga perciò mi è venuto in mente che, magari, gli sceneggiatori possano aver preso spunto da Borges per la fine della serie televisiva.
Follia? Probabilmente ma ognuno ha la propria.
Procediamo per gradi: di cosa tratta "L'Aleph" di Borges?
Ci ritornerò probabilmente in un diverso post per riservare al magnifico autore argentino l'onore e lo spazio che si merita, però accenno qui di seguito alcuni temi che possono trovare echi nella saga di Martin.
Tre sono i temi principali che si possono riflettere nell’opera di Martin: il peso dell’immortalità, l'oppressione che suscita l’infinita conoscenza e il tema della morte come restituzione a sé stessi o all’infinito.
La mia tesi non credo avrà spazio nella serie ma potrebbe disperatamente giustificare quanto accaduto nella 8x3, nell’episodio La lunga notte, ovvero che gli Estranei siano creature del corvo a tre occhi il cui scopo è quello di chiamarli a ucciderlo e porre fine alla sua esistenza e al fardello della conoscenza universale, per restituirgli la sua umanità nella morte.
Per Borges è proprio la consapevolezza della propria mortalità che ci rende umani e fa di ogni momento, di ogni azione, qualcosa di importante. L’immortalità è una condanna, è la fine dell’umanità.
Ripeto: parlo solo della serie TV in questo caso poiché nei libri Corvo Brynden è ancora vivo e vegeto e sta trasmettendo a Bran la sua conoscenza.
Quando Bran arriva nella caverna dei Figli della Foresta oltre la barriera incontra il Corvo a tre occhi e questi lo inizia ai misteri dei veggenti verdi e lo guida nel passato (in una determinata direzione nel passato). Sappiamo che il Corvo è Brynden Rivers, figlio bastardo di re Aegon IV, già Primo Cavaliere di re Aerys I, mandato poi alla Barriera per l’uccisione di Aenys Blackfyre, ma non sappiamo se Brynden sia stato il primo corvo o se ce ne siano stati altri prima di lui.
Propendo per la seconda ipotesi: Brynden Rivers arriva alla Barriera nel 233 dopo la Conquista, nel 252 scompare e quando Bran arriva all’albero diga sono trascorsi almeno 48 anni (considerando che le nozze di Joffrey avvengono nel 300 d.C), in qualche modo intrappolato tra le radici dell’albero diga è condannato a vivere in eterno con tutta la conoscenza del mondo che letteralmente lo attraversa, sempre e contemporaneamente come la visione dell’Aleph di Borges.
Narra Borges:
“Ogni cosa (il cristallo dello specchio, ad esempio) era infinite cose, poiché io la vedevo distintamente da tutti i punti dell’universo. Vidi il popoloso mare, vidi l’alba e la sera, vidi le moltitudini d’America, vidi un’argentea ragnatela al centro d’una nera piramide, vidi un labirinto spezzato (era Londra), vidi infiniti occhi vicini che si fissavano in me come in uno specchio, vidi tutti gli specchi del pianeta e nessuno mi rifletté, (…) vidi convessi deserti equatoriali e ciascuno dei loro granelli di sabbia, vidi ad Inverness una donna che non dimenticherò, vidi la violenta chioma, l’altero corpo, vidi un tumore nel petto, (…) vidi tutte le formiche che esistono sulla terra, vidi un astrolabio persiano, vidi un cassetto della scrivania (..) vidi la circolazione del mio oscuro sangue, vidi il meccanismo dell’amore e la modificazione della morte, vidi l’Aleph, da tutti i punti, vidi nell’Aleph la terra e nella terra di nuovo l’Aleph e nell’Aleph la terra, vidi il mio volto e le mie viscere, vidi il tuo volto, e provai vertigini e piansi, poiché i miei occhi avevano visto l’oggetto segreto e supposto, il cui nome usurpano gli uomini, ma che nessun uomo ha contemplato: l’inconcepibile universo.
Beh, non so a voi ma a me questo passo ha ricordato tantissimo la visione che ha Bran quando viene portato in salvo da Meera, quella del "Burn them all!" insomma, l'Aleph provoca la stessa visione nel protagonista di Borges, una visione di tutto contemporaneamente, magnifica e terrificante allo stesso tempo.
Spiega lord Brynden a Bran:
“Il tempo è differente per un albero che per un uomo. Sole, terra e acqua: sono queste le cose che un albero-diga capisce, non giorni, anni e secoli. Per gli uomini, il tempo è un fiume. Siamo intrappolati nel suo flusso, corriamo dal passato al presente, sempre nella stessa direzione. La vita degli alberi è differente. Loro attecchiscono, crescono e muoiono in un solo posto e il fiume del tempo non li smuove. La quercia è la ghianda, la ghianda è la quercia. E l’albero-diga… mille anni umani per un albero-diga sono un attimo, e da queste porte tu e io possiamo scrutare nel passato.»” (...) “Un albero-diga vivrà per sempre, se lasciato indisturbato. Per loro le stagioni trascorrono in un battito d’ali di falena, passato, presente e futuro sono una cosa sola. E la tua vista non sarà limitata al tuo parco degli dèi. I cantori hanno scolpito degli occhi nei loro alberi del cuore per risvegliarli, e sono quelli i primi occhi che un nuovo essere verde impara a usare… Col tempo, però, vedrai ben al di là degli alberi stessi.”
Le visioni del protagonista Borges continueranno ad ossessionarlo per giorni fino alla distruzione dell'Aleph.
Corvo Brynden ce l'ha fatta a sfuggire alla condanna assicurandosi prima di avere un successore e lo stesso Bran desidererà porre fine alla sua vita e questo è il messaggio che passa al Night King: lo attrae a Winterfell e si mette in bella mostra allo scoperto nel parco degli dèi, quando il Night King arriva gli ordina di ucciderlo guardandolo prima in faccia e poi indugiando con lo sguardo sulla sua spada. Il Night King riceve il messaggio sorpreso e fa per obbedire quando arriva Arya e manda all'aria i piani del fratello.
Rimane un paradosso non chiarito (uno dei tanti): nell'episodio 8x2 viene spiegato che il Night King vuole la fine dell'umanità e per ottenerla vuole iniziare proprio con l'uccidere Bran che della storia dell'umanità è il custode. Dietro la volontà del Night King ci sarebbe Bran e il NK non sarebbe altro che uno strumento, questo farebbe di Bran il vero villain della storia.
Di qui le teorie che si inseguono da anni sulla probabile identità Bran-NK: in una linea temporale parallela Bran-Corvo, per sfuggire alla condanna della conoscenza e dell'immortalità, sarebbe tornato indietro nel tempo, sempre più indietro per creare il Night King che nel futuro lo avrebbe ucciso.
Può essere Bran diventato così malvagio?
Sì e il perché lo troviamo di nuovo nelle pagine di Borges.
Ne "La scrittura del dio", uno dei racconti contenuti nella raccolta "L'Aleph", il protagonista Tzinacan riesce a decifrare la sentenza magica che dio avrebbe scritto nel primo giorno della creazione per scongiurare i mali che sarebbero accaduti alla fine dei tempi: una sentenza di quattordici parole, quaranta sillabe.
Decifrata la magica sentenza Tzinacan si rifiuta di pronunciarla
"È una formula di quattordici parole casuali (che sembrano casuali) e mi basterebbe pronunciarla ad alta voce per essere onnipotente. Mi basterebbe dirla per abolire questo carcere di pietra, perché il giorno invadesse la mia notte, per essere giovane e immortale, perché il giaguaro lacerasse Alvarado, per affondare il santo coltello in petti spagnoli, per ricostruire la piramide e l’impero. Quaranta sillabe; quattordici parole, e io, Tzinacàn, governerei le terre governate da Moctezuma. Ma so che mai dirò quelle parole, perché non mi ricordo più di Tzinacàn. Muoia con me il mistero che è scritto nelle tigri. Chi ha scorto l’universo, non può pensare a un uomo, alle sue meschine gioie o sventure, anche se quell’uomo è lui. Quell’uomo è stato lui e ora non gl’importa più. Non gl’importa la sorte di quell’altro, non gl’importa la sua azione, poiché egli ora è nessuno. Per questo non pronuncio la formula, per questo lascio che i giorni mi dimentichino, sdraiato nelle tenebre."
Chi ha la conoscenza di tutto e l'immortalità non ha più interesse nella vita, né nella sua né in quella degli altri, tutto gli diventa indifferente: sé stesso, i propri amici e familiari, la stessa umanità perde valore.
Il colloquio che Bran ha con Tyrion durante il banchetto che segue la vittoria della lunga notte Bran lo conferma:
"Bran: non voglio più nulla, oramai
Tyrion: Ti invidio
Bran: Non dovresti invidiarmi"
Borges ci ricorda inoltre ne L'Immortale" che il fine ultimo di chi ha guadagnato la vita eterna è quello di perderla e per questo il protagonista del racconto si mette alla ricerca della fonte che lo libererà dall'immortalità
"Esiste un fiume le cui acque danno l'immortalità; in qualche regione vi sarà un altro fiume, le cui acque la tolgono. il numero dei fiumi non è infinito; un viaggiatore immortale che percorra il mondo finirà, un giorno, con l'aver bevuto da tutti. Ci proponemmo di scoprire quel fiume. (...) Tutto, tra i mortali, ha il valore dell'irrecuperabile e del causale. Tra gl'Immortali, invece, ogni atto (e ogni pensiero) è l'eco d'altri che nel passato lo precedettero, senza principio visibile, o il fedele presagio di altri che nel futuro lo ripeteranno fino alla vertigine. Non c'è cosa che non sia come perduta tra infaticabili specchi. Nulla può accadere una sola volta, nulla è preziosamente precario."
Nulla è preziosamente precario, nemmeno la vita dei propri cari, nemmeno l'umanità.
Ecco perché Bran deve essere ucciso: perché in ogni momento di questa linea temporale Bran potrebbe di nuovo viaggiare nel passato e ricreare un nemico che alla fine ponga fine al Bran nel futuro senza preoccuparsi di risparmiare il resto dell'umanità. Il desiderio che ha Bran di morire è talmente grande da offuscare qualunque altro sentimento.
A questo punto sorridano i fan di Jon Snow!!! Sorridano tutti quelli che hanno gridato allo scandalo quando hanno visto Arya uccidere il NK, sorridano coloro che sono stati presi da attacchi di panico al pensiero che Arya Stark potesse essere Azor Ahai, il guerriero destinato a salvare l'umanità:
Arya Stark non è Azor Ahai, non ha eliminato il vero nemico dell'umanità, solo il suo strumento.
In questo momento è rimasto un personaggio che ha una missione da compiere, anche se non sa quale perché ovviamente lui non sa mai niente, un personaggio riportato in vita dal signore della luce per uno scopo che ancora non ci è stato chiarito: Jon Snow.
Perché Bran non abbia semplicemente chiesto a qualcuno che passava lì a Grande Inverno di ucciderlo non è chiaro... forse semplicemente Bran non può essere ucciso da un essere umano vivente, ecco perché ha creato gli Estranei ed ecco perché solo Jon (che è morto, lo ricordiamo) può ucciderlo.
Teoria più, teoria meno... ormai quasi tutto ha senso.
Ok!
Ma alla fine chi siederà sul trono di spade?
Nessuno. Anche questo potrebbe dircelo Borges, nel "Deutsches Requiem":
"Molte cose bisogna distruggere, per edificare il nuovo ordine (...) Che il cielo esista anche se il nostro luogo è l'inferno"
Il trono deve essere distrutto per costruire un nuovo mondo, le convenzioni devono essere sovvertite. Il raggiungimento di questo scopo richiederà sacrifici.
Di qui la definizione che Martin stesso diede del finale delle Cronache: un finale agrodolce.
A questo punto è anche possibile che il primo tentativo di uccidere Bran con la daga sia stato organizzato addirittura dallo stesso Bran, un Bran un po' impacciato, un po' Willie il Coyote che negli anni le ha tentate tutte per togliersi la vita... ma questa è un'altra storia.
Martedì 23 aprile, senza nemmeno ricordare che fosse la giornata mondiale del Libro, mi sono ritagliata un'oretta di tempo per visitare la mostra temporanea allestita presso la Biblioteca Federiciana di Fano dal titolo "Dal Manoscritto all'e-book" dal curatore Michele Tagliabracci.
La mostra si inserisce in un percorso che ha coinvolto le scuole della città per mostrare agli studenti l'evoluzione della scrittura dalle testimonianze più antiche come le tavolette cerate romane alle più moderne come l'e-book.
Conclusosi il percorso di laboratori con le scuole è rimasta aperta per qualche tempo la mostra dei testi antichi del fondo Federici nella Sala dei Globi della biblioteca cittadina.
Documento amministrativo dell'Asia centrale del XVII secolo
L'esposizione si apre con un rotolo di carta riportante un documento amministrativo dell'Asia centrale del XVII secolo (Coll. Sex. Mss. Cassettiera E). Si tratta di un rotolo abbastanza recente che ci ricorda però che questa fu la prima forma per il libro: il rotolo di papiro fu introdotto nell'uso dagli Egizî e adottato in seguito dai Greci e dai Romani. I rotoli erano composti di più strisce di papiro incollate insieme: a formare un unico foglio più o meno lungo, avvolto intorno a un cilindro di legno, erano scritti in colonna da una sola parte, quella cioè interna, e portavano all'estremità inferiore una piccola striscia di papiro col titolo dell'opera perché lo si potesse conoscere a rotolo avvolto e chiuso.
Accanto a questo rotolo un atto notarile del XIV secolo in pergamena (pelle animale variamente conciata, detta anche cartapecora) probabilmente riutilizzata come coperta di un libro per proteggere il testo. Interessante la presenza, accanto a questa pergamena esposta di una noce di galla, un'escrescenza della quercia provocata dalla puntura di un insetto che vi deponeva le uova il cui interno, ricco di tannini e acido gallico, mescolato con adeguati ingredienti, veniva utilizzato come inchiostro dal colore bruno.
atto notarile del XIV secolo in pergamena
Cattura lo sguardo un Salterio Romano del secolo XV preziosamente miniato con abbondanza di oro e blu (Coll. Ms. Federici, 39) la cui legatura possiede ancora le bindelle (chiusure) funzionanti e decorazioni a secco e i oro.
Salterio Romano del secolo XV
Ancora più affascinante un libro di Cabala di Crisostomo da Capranica, De ineffabili Dei nomine Tetragrammaton (1623?) in possesso del Federici perché questo abate fanese possedeva la "patente di lettura" ovvero l'autorizzazione papale a possedere e leggere opere messe all'indice. Il manoscritto, preziosamente miniato, è chiuso con bindelle di tessuto rosse e gialle ricostruite grazie a frammenti trovati nella legatura decorata a secco e in oro.
Cabala di Crisostomo da Capranica
Splendidamente conservata nel fondo Federici è un incunabolo delle Cronache di Norimberga (Liber Chronicarum Norimberga: Anton Koberger del 1493, Coll. Cassaforte B).
Cronache di Norimberga
La Cronaca di Norimberga è un'opera compilatoria di Hartmann Schedel, scritta in lingua latina proprio nel 1493, dunque la Bibioteca di Fano possiede, grazie ai saggi acquisti del suo fondatore Federici, una delle prime versioni a stampa a caratteri mobili di questa opera. Si tratta di una storia illustrata del mondo secondo la narrazione biblica; il libro contiene inoltre la storia di molte delle grandi città dell'Occidente.
Incunabolo viene definito il libro stampato a caratteri mobili dalla metà del XV secolo fino al 1500 compreso e riproduceva fedelmente l'opera manoscritta ovvero non presenta frontespizio ma presenta come prima pagina direttamente il testo. In altri casi il testo è preceduto da una formula che contiene il nome dell'autore dell'opera e un titolo nell'incipit o nell'explicit.
I primi libri realizzati con i caratteri mobili tendevano a imitare l'aspetto esteriore dei libri manoscritti. Gli stessi caratteri adottati imitano quelli dei manoscritti; la numerazione delle pagine è spesso assente e l'ordine delle pagine è assicurato da richiami alla fine di ogni pagina, posti a destra in basso.
I primi incunaboli erano spesso indistinguibili dai manoscritti e ne riproducevano non solo la forma e l'organizzazione di pagina ma anche i caratteri della scrittura egli amanuensi.
In questo modo, poiché oltretutto il prezzo degli incunaboli non era molto inferiore a quello dei manoscritti, il pubblico continuò a preferire i libri manoscritti.
In seguito gli stampatori definirono dei canoni specifici per i libri a stampa ovvero il frontespizio con il titolo e l'autore dell'opera e un tipo di scrittura dedicato: la minuscola corsiva.
Cronache di Norimberga, rappresentazione acquarellata della Germania del Nord
Il più famoso disegnatore di caratteri per la stampa fu Francesco Griffo o Griffi (1450 - 1519), considerato l'inventore del corsivo tipografico commissionato dallo stampatore veneziano Aldo Manuzio.
Griffi era figlio di un orefice, iniziò l'attività di incisore a Bologna, si trasferì poi a Venezia e dal 1494 lavorò per Aldo Manuzio, uno dei più importanti stampatori veneziani: per lui disegnò almeno sei serie di caratteri tondi, eleganti e armoniosi, qualche anno più tardi Griffi disegnò il primo corsivo, un vero stile tipografico: Griffi riuscì ad imitare un tipo di scrittura, la scrittura corsiva, usata dalla cancelleria papale e dagli umanisti dell'epoca. Tale calligrafia era contraddistinta da una lieve inclinazione verso destra.
La sua compattezza permise la riduzione del formato dei libri: Aldo Manuzio riuscì a stampare volumi "in ottavo", cioè in un formato molto ridotto rispetto ai grandi e maestosi volumi "in folio" (cioè un foglio piegato in due, ossia quattro pagine) o a quelli "in quarto" (cioè di otto pagine). Manuzio lo chiamò enchiridion, maneggevole, leggero e facilmente trasportabile.
Il primo tascabile della storia insomma.
Nello stesso 1501 Aldo Manuzio ottenne dal governo veneziano il monopolio dell'utilizzo del corsivo, e l'anno successivo anche la sua estensione all'uso di tutti i caratteri disegnati dal Griffi. Probabilmente Griffi non fu entusiasta di questa appropriazione e lasciò Venezia per recarsi proprio a Fano.
Negli anni successivi Griffi fu al servizio di Gershom Soncino (stampatore ebreo attivo a Fano tra il 1502 e il 1507), poi rientrò a Bologna, dove intraprese l'attività di stampatore in proprio, pubblicando nel 1516-17 sei edizioni di classici italiani tra i quali l'edizione del Canzoniere di Petrarca conservati presso la Biblioteca Federiciana. Per essi utilizzò un nuovo stile di corsivo, diverso da quelli utilizzati in precedenza che negli anni successivi divenne noto in tutta Europa come "italique", "italic", "italico" (tranne che in Spagna, dove fu chiamato "letra grifa").
Le stamperie di Fano possedevano le patenti e le maestranze necessarie per rivaleggiare con Venezia e, in caso di contrasti per monopoli o autorizzazioni, Venezia si trovò spesso a pubblicare opere che poi dichiarava essere state stampate a Fano.
Uno di questo libri è famoso in tutto il mondo musulmano ed è il Kitāb ṣalāt al‐sawā'ī o horologium breve, cioè "Il libro della preghiera delle piccole ore", è il primo libro in alfabeto arabo stampato in Europa con la tecnica dei caratteri mobili. Scritto in arabo classico si ipotizza che l'opera fu stampata a Venezia nel 1514 dal tipografo Gregorio de' Gregori, in arabo classico e la produzione dei caratteri si ipotizza che sia stata commissionata proprio a Francesco Griffi.
Il libro riporta come data e luogo di pubblicazione il 12 settembre 1514 a Fano ma si ritiene che Gregorio dé Gregori, per aggirare il divieto, abbia indicato la città di Fano solo formalmente, pur stampando a Venezia.
La descrizione del Kitāb ṣalāt al‐sawā'ī la trovate a questo link e in Celeste Gianni e Michele Tagliabracci, Kitāb ṣalāt al‐sawā'ī: protagonisti, vicende ed ipotesi attorno al primo libro arabo stampato con caratteri mobili, in Culture del testo e del documento, vol. 13, nº 38, 2012.
Una testimonianza del corsivo del Griffi è presente nel Canzoniere del Petrarca posseduto dalla Biblioteca Federiciana nel cui colophon si trova scritto:
"un nobilissimo sculptore de littere latine graece et hebraice chiamato M. Francesco da Bologna, l'ingegno del quale certamente credo che in tale exercitio non trove un altro equale. Perché non solo le usitate stampe perfectamente sa fare, ma etiam ha excogitato una nova forma de littera dicta cursiva, o vero cancellaresca de la quale non Aldo romano, né altri che astutamente hanno tentato de le altrui penne adornarse, ma esso M. Francesco è stato primo inventore et designatore el quale e tucte le forme de littere che mai habbia stampato dicto Aldo ha intagliato, e la praesente forma con tanta gratia e venustate, quanta facilmente in essa se comprende. (...) in Fano Caesaris adi vii de iulio MDIII"
Canzoniere del Petrarca stampato nella città di Fano
In biblioteca è presente anche un curioso esemplare di libro-game del 1658: Responso a cento quesiti piacevoli: sono presenti delle tavole per i punti e i responsi. Non ho letto il regolamento ma mi piacerebbe farlo prima o poi, potrebbe essere un gioco interessante.
Molto interessante è anche lo Sphaera Mundi di Peter Apian, Anversa: Arnold Birckmann, 1533. Opera di Giovanni Sacrobosco, in assoluto il trattato di astronomia più diffuso nel Medioevo: era usato in tutte le università ed il manoscritto fu copiato molte volte prima dell'invenzione della stampa.
È diviso in quattro capitoli: il primo tratta la struttura generale dell'universo; il secondo le sfere celesti; il terzo la rotazione giornaliera del cielo e le zone climatiche terrestri; il quarto i movimenti dei pianeti e le eclissi.
La sua descrizione della Terra come una sfera, e la sua popolarità, permettono di confutare al di là di ogni dubbio l'opinione secondo la quale gli studiosi medioevali avrebbero ritenuto che la Terra fosse piatta.Si può definire libro interattivo? non lo so, non saprei come descriverlo la tra le sue pagine si trovano assemblati strumenti di carta, avi del regolo calcolatore e dell'astrolabio... bellissimo.
Ho fatto qualche foto ma il modo migliore per apprezzarlo è vederlo con i propri occhi oppure dare un'occhiata al video YouTube qui sotto.
La mostra si va concludendo con una pergamena riutilizzata come copertura di un libro della quale si può vedere bene la fattura e come venisse rinforzata inserti di cuoio intrecciato.
Chiude l'esposizione una raccolta de La provincia di Pesaro e Urbino del 1901-1920