lunedì 21 giugno 2010

Giovediamoci al Balì - Il cielo di Dante



Ecco, ci risiamo, ricominciano le giornate calde e lunghe (non quella di oggi) e ricominciano le uscite, le escursioni, le manifestazioni.
In realtà non è che durante l'inverno me ne sia stata con le mani in mano e le zampe in casa ma con il sole tutto diventa più facile, persino svegliarsi la mattina dopo le uscite serali infrasettimanali che evito sin dai tempi del liceo.
Giovedì 17 c'è stata un'interessante serata a base di Dante e astronomia che ha messo d'accordo me e il Teo. Dante per me, astronomia per il Teo. E, visto che le cose belle sono ancora più belle se condivise, ci siamo portati dietro altri due amici.
Prima parte: introduzione alla Divina Commedia, lezione sui riferimenti astronomici nella DC, emisfero boreale e australe (australe poco ma che volete nel 1300), escursus sui personaggi che maggiormente hanno contribuito a darci la visione del cielo che conosciamo e spiegazione di molti di quei termini infernali che una persona a digiuno di cielo come me conosce per sentito dire e niente più.
Seconda parte: Planetario. Abbiamo percorso insieme a Dante il viaggio guardando nel cielo e ritrovando le stelle e i pianeti di cui parla nella sua opera.

Ma che bellezza!!!
Tutte quelle parole che al liceo sembravano senza senso finalmente si sono svelate, dischiuse.
Sono sicura che in ambito accademico l'opera di Dante venga sviscerata come pesce pescato ma chi li sta a sentire? Molto spesso argomenti interessanti rimangono chiusi all'interno delle aule dell'università a uso esclusivo di professori tromboni che fagocitano tutto come quei lontani parenti che chissà perché hai invitato al matrimonio e che al ricevimento si abbuffano.

E' bello poi che le guide del museo del Balì (definiti, ahimè, impropriamente "animatori" neanche fossimo alla Valtur") si cimentino in opere di ricerca accattivanti che attraggono visitatori e pubblico nei musei.
Eh sì perché nemmeno la presidentessa della Fondazione Museo del Balì ha saputo trattenere il suo stupore di fronte al gran numero di uditori in sala, speriamo che questo porti ad affrontare nuovamente il binomio astronomia-letteratura (o semplicemente astronomia e arte).

Tornando a casa in macchina col Teo ci siamo confrontati su quanto visto e su quanto si potesse ancora fare o approfondire... che possiamo farci? Non ci accontentiamo mai. Mille idee e mille altre soluzioni ma... andava bene così, non si può diventare esperti con una conferenza ed è lodevole quanto sia già stato fatto.

Risultato della serata?
Ho ritirato fuori la Divina Commedia alla ricerca dei passaggi illustrati durante la lezione per vedere di cavarci fuori dell'altro e soprattutto con il solito improponibile proposito di rimettermi a leggere,
un giorno,
questa volta per davvero,
quest'opera.
Chi sa che non impari anche ad apprezzarla come dovrei rimuovendo tutti gli atroci ricordi di liceale.

martedì 8 dicembre 2009

Ciao amore mio peloso

Ciao amore mio peloso.

Sei nata sotto il sole di agosto mentre dal cielo cadevano stelle e il giorno del mio compleanno sei venuta a casa con me.
C'era una cucciolata di micetti rossi, grigi, tigrati e neri, tutti bellissimi, tutti già presi in braccio dai loro futuri padroni, solo tu restavi nel cartone, guardavi in alto, buona buona, e io dissi "Voglio lei". In casa nostra non c'era nulla per te e andammo insieme a fare shopping: lettiera, ciotola, trasportino e tra gli scaffali del negozio facesti finalmente sentire la tua voce.
Micia chiacchierona.

I cuccioli di casa giocano rincorrendosi la coda nel bidè, tu lo facevi in una ciotola d'argento; hanno un collarino con sonaglio, per il mio matrimonio ti mettemmo un bel fiocco bianco al collo; mangiano per terra, tu sempre a tavola con noi e negli ultimi anni avevi scelto il mio ginocchio, dove aspettavi il tuo turno.
Gattostoviglie.

Compravo mezzo pollo e ce lo dividevamo: la polpa succosa a te e gli ossi da rosicchiare a me poi, buttati i resti, dovevo coprire la spazzatura con qualcosa di pesante per impedirti di rumarvi dentro e continuare il pasto. Mi è capitato, tuttavia, di trovare ossi in giro, sotto il lettone, confidavi nel mio sonno pesante. Rubavi il cibo da tutti i piatti, a mia nonna rubasti un'intera bistecca per mangiartela con soddisfazione sotto una poltrona della sala, anche le torte al cioccolato ti piacevano, le pizzelle, i gelati, una volta afferrasti con i denti la mia fetta di tacchino e fuggisti sotto il tavolo, ti inseguii e, tenendoti sotto il braccio sinistro, ti strappai la preda dai denti, la rimisi nel piatto e continuai a mangiare. Eravamo un po' disgustose io e te: una forchetta in due, una patatina mangiata muso a muso.
Micia famelica.

Quando eri piccola dormivi sul mio cuscino e, quando studiavo alla scrivania, sulle mie spalle. Poi non ti bastarono più e decidesti che sotto la lampada da studio era molto meglio e io cercavo di non occupare il tuo spazio coi miei libri. All'università ti facesti sfrontata e decidevi tu quando dovevo prendermi una pausa per coccolarti, ti acciambellavi sui miei testi, io ti guardavo e ti chiedevo "Beh?", tu mi guardavi e rispondevi "Meh!", dimenticavo le pagine e ti stringevo forte al petto, sotto il mio collo, e la tua soddisfazione era la mia gioia. Ma le nanne più goduriose erano quelle sul divano, nei pomeriggi del fine settimana, non bastavano mai ed ero tutta per te. Hai sempre preferito la mia spalla sinistra, col musetto sotto il collo e la zampina destra ad abbracciarmi. Sotto la copertina si raggiungevano temperature altissime, mi toglievo i calzini e lasciavo uscire i piedi dalla coperta.
In casa con Matteo vigeva per te una regola strettamente rispettata: quando tu dormivi su uno di noi, questi era costretto all'immobilità assoluta, divieto di alzarsi, anche per andare al bagno, e, se squillava il telefono, si parlava sottovoce per non disturbarti.
A Sacile avevi la tua postazione preferita: una scrivania davanti alla finestra e vicino al termosifone, vi ponemmo sopra una copertina in pile e un cuscino, ogni tanto chiamavo Matteo e dicevo "Guarda la Micia", non facevi assolutamente nulla, dormivi e russavi, ma era tanto bello guardarti che ce ne stavamo così, imbambolati, il mento sulla mano, orgogliosi della tua bellezza e appagati dalla tua serenità.
A Fano un posto caldo per te non c'era nello studio, allora mi toglievo la vestaglia, la adagiavo in terra e tu ti ci acciambellavi sopra. All'inizio quante fusa di gratitudine, poi hai cominciato a pretenderlo: ti mettevi ai piedi della scrivania e "Mao, mao, mao, mao", fino a che cedevo, mi spogliavo, buttavo i vestiti ancora caldi per terra e tu eri contenta.
La notte mi salivi sul petto , "prrrr", e nel buio vedevo i tuoi occhioni cerchiati di ombretto bianco, ti accucciavi, riponevi le zampine sotto il petto, a gallinella, e aspettavi paziente che mi svegliassi.
Micia sonnacchiosa.

Eri sempre la prima ad accogliermi alla porta, dietro di te veniva il Pelosetto che si stiracchiava. Matteo dice che sentivi che stavo arrivando con minuti di anticipo.
Qualche volta tentavi la fuga, perché le porte chiuse a te proprio non piacevano, di solito chiacchieravi, contenta di poter parlare finalmente con qualcuno, "Cosa hai fatto oggi Micia?", mi raccontavi la tua giornata e io ti raccontavo la mia "Sai, ho visto proprio un bel gattone qui sotto". Il Pelosetto vuole solo coccole, tu da me volevi di più, mi trattavi alla pari, da gatto a gatto, ci soffiavamo, ci annusavamo, ruggivamo, incrociavamo il collo sul letto. Anche con gli ospiti eri una perfetta padrona di casa, con te il comitato d'accolgienza era al completo, prima li scrutavi dal basso annusando le scarpe, poi salivi sul tavolo per metterti muso muso con i nuovi venuti, infine decidevi: o non ti interessavano e ti ritiravi nei tuoi appartamenti, oppure decidevi che potevano anche andare bene e ti accoccolavi sul divano con noi, magari sulle gambe del malcapitato che sentiva le tue unghiette perforare i jeans e sfiorare la carne e guai a toglierti, altrimenti gambe e jeans erano perduti.
Che caratterino.
Già, carattere ne avevi, una volta il veterinario di Fano, vedendoti impaurita e tutta incollata a me, per rassicurarti, volle farti una carezza e si avvicinò più di quanto tu consentissi. E' stato bravo, bravo davvero a schivare la tua zampata che mirava alla giugulare. Bruno invece eliminò il problema alla radice: eri nel suo garage per una sosta breve e lui doveva passare proprio di lì. Ti vide, minacciosa e soffiosa, con la mente lo avevi già sbranato. Tornò sui suoi passi e preferì fare il giro tutto intorno alla casa piuttosto che scontrarsi con te.
L'apice delle malefatte lo toccasti a Bellocchi: avevi un terrazzo tutto per te ed eri felice perché da lì arrivavi sul tetto e potevi scaldarti al sole sulle tegole. Matteo una volta si affacciò e scoprì che invece lassù ci andavi a fare i bisogni senza il tormento del Pelosetto. Ci volle un pomeriggio intero per ripulire tutto ma io mi ammazzavo lo stesso dalle risate.
In fondo eravamo noi i tuoi complici, come quando in due ti sorreggevamo per aiutarti ad acchiappare le farfalline attorno al lampadario. Avevi due umani al tuo servizio. Oppure quando, durante la nevicata del 1996 a Verona, la prima della tua vita, ti portai nel parcheggio e ti appoggiai sulla Uno della mamma per farti sentire la neve, non ti è piaciuto proprio, camminavi col passo dell'oca scrollando le zampine infreddolite. Poi ti riportai in casa e ti asciugai e riscaldai per benino. Davvero il freddo non ti piaceva. Avrei dovuto comprarti una casa col caminetto e accenderlo solo per te. Sai che ronfate con quel calore?

Come si fanno a descrivere quattordici anni della tua e della nostra vita?
Le fette di tacchino, i rotolini al sole di primavera, i tuoni che ti facevano fuggire nello stanzino o sotto i mobili di cucina, il rumore di scatolette aperte che ti faceva accorrere subito, il tuo sentirmi prima che arrivassi sotto il portone di casa e la tua apprensione quando mi sentivi triste. Chi sa se sapevi cosa erano le lacrime, quest'acqua salata che mi leccavi dal viso e che ti faceva fare le fusa e strusciare il tuo muso contro il mio, mi guardavi con i tuoi occhioni grandi e buoni e tornavo serena.
C'era qualcosa tra me e te.
L'ultima volta ti ho coccolata io, sul letto, ti ho portato una scatoletta di tonno in una ciotola per cena e ci hai tuffato dentro il muso, poi hai stretto i denti e non ne hai più voluto sapere. Il Panico.
La corsa dal veterinario, tu mi guardavi in macchina e miagolavi piano, avevi ancora delle cose da dirmi, il corpo ti abbandonava ma tu eri ancora lì. Sul tavolo ti accarezzavo la zampina, i tuoi grandi occhi dentro i miei e tu mi parlavi ancora. Poi ti ha portata via, giù per le scale, e io non ti ho vista più. La notte si è fatta giorno e poi ancora notte fino a che non sono caduta anch'io nel sonno.

Sento che questo dolore mi unisce ancora a te e non voglio separarmene, voglio tenermelo stretto come stringevo te, coccolarlo, come coccolavo te, nutrirlo dei tuoi e dei nostri ricordi. Mi resta questo, tre unghiette, due crocchini, un ciuffo di pelo.
Adesso è il dolore a tenermi calda la notte, ha preso il tuo posto. Tu che eri con me, su di me, dentro di me. Tu che eri amore puro, calore umano, dolcezza infinita, riempivi le mie braccia e il mio cuore... quanto le ho sentite vuote e pesanti riportando a casa la tua cuccia vuota.
Vorrei ricordarti al sole di primavera, baciata dai raggi. Tutto quello che riesco a ricordare sono i tuoi occhioni spalancati, terrorizzati, e la tua voce a dirmi "non mi lasciare", in un ultimo sguardo infinito.

Sei nata col sole e il sole è stato sempre con te, nel tuo mantello, nei tuoi occhi. Da quando sei andata via la mattina c'è un gran nebbione e di giorno solo nuvole.

Novembre fa schifo.

sabato 15 agosto 2009

Alba al porto

Con la mancanza di sonno e con molta intelligenza sono cresciuto un po' pazzo, penso, come tutti gli uomini che vivono sul mare molto vicini gli uni agli altri, e così vicini tuttavia a tutto ciò che è mostruoso sotto il sole e sotto la luna.
William Golding

Un panorama fatto di campanili e mare aperto dove è marcata a forti contrasti la linea che separa il cielo dall'acqua.
Credo che a volte si nasca col mare dentro.

lunedì 10 agosto 2009

Riccardo Prigioniero


Nel 1193, conclusa la spedizione in Terra Santa, Riccardo I si accingeva a tornare in patria. Venne catturato da Leopoldo V, duca d'Austria che lo cedette a Enrico VI, capo del Sacro Romano Impero.
Durante la prigionia Riccardo scrisse "Ja nus hons pris", Mai nessun prigioniero, diretto alla sorella Maria di Champagne, per esprimere il senso d'abbandono che lo aveva colto, lontano dal suo popolo, lontano dai suoi familiari.

Ja nuns hons pris ne dira sa raison Mai nessun prigioniero potrà esprimere
A droitement, se dolantement non: Bene quel che sente, senza lamentarsi:
Mais par esfort puet il faire chançon. Ma sforzandosi puo' comporre una canzone.
Mout ai amis, mais povre sunt li don. Ho molti amici, ma poveri sono i loro doni.
Honte i avront, se por ma reançon Saranno biasimati, se per non darmi riscatto,
Sui ça deus yvers pris. Son già due inverni che sono qui prigioniero.

Ce sevent bien mi home e mi baron, Ma i miei uomini e i miei baroni,
Ynglois, Normanz, Poitevin et Gascon Inglesi, Normanni, Pittavini e Guasconi,
Que je n'ai nul si povre compaignon Sanno bene che non lascerei marcire in prigione
Que je lessaisse, por avoir, en prison. Per denaro neanche l'ultimo dei miei compagni.
Je nou di mie por nule rentrançon, E non lo dico certo per rimproverarvi,
Car encor sui pris. Ma perché sono ancora qui prigioniero.

Or sai je bien de voir, certeinnement, Ora so bene, con certezza,
Que je ne pris ne ami, ne parent, Che un prigioniero non ha più parenti nè amici,
Quant on me faut por or ne por argent. Poiché mi si tradisce per oro o per argento.
Mout m'est de moi, mès plus m'est de
ma gent; Soffro molto per me, ma più per la mia gente,
Qu'après ma mort avront reprochement, Poiché, dopo, la mia morte sarà biasimata
Se longuement sui pris. Se a lungo resterò prigioniero.

N'est pas mervoille se j'ai le cuer dolant, Non c'è da meravigliarsi se ho il cuore dolente,
Quant mes sires mest ma terre en torment. Dato che il mio Signore tormenta la mia terra.
S'il li membrast de nostre soirement Se si ricordasse del nostro giuramento
Que nos feïsmes andui communement, Che entrambi facemmo di comune accordo,
Je sai de voir que ja trop longuement So con certezza che mai, adesso,
Ne seroie ça pris. Da così tanto sarei prigioniero.

Ce sevent bien Angevin et Torain, Lo sanno bene gli Angioini e i Turennesi,
Cil bacheler qui or sont riche et sain, Quei baccellieri che son sani e ricchim ora,
Qu'encombrez sui loing d'aus, en autre main. Che io sono lontano da loro, in mano ad altri.
Forment m'aidessent, mais il n'en oient grain. Mi aiuterebbero molto, ma non ci sentono.
De beles armes sont ore vuit et plain, Di belle armi e di scudi sono privi,
Por ce que je sui pris. Perché io sono qui prigioniero.

Contesse suer, vostre pris soverain Sorella Contessa, che conservi e protegga
Vos saut et gart cil a cui je m'en clain; Il vostro alto pregio Colui cui mi appello
E por ce que je sui pris. E per cui sono prigioniero.
Je ne di mie a cele de Chartrain, E non lo dico certo a quella di Chartres,
La mere Loëys.
La madre di Luigi.

Il realtà re Riccardo non fu abbandonato proprio da tutti, la madre Eleonora d'Aquitania scrisse più volte al papa Celestino III lettere accorate in cui implorava la liberazione del figlio:

Lettera I
"[...] Il nostro re è confinato e da ogni parte l'angoscia lo opprime. Voi vedete le cose, la caduta dell'impero, la malizia dei tempi, la crudeltà del tiranno che incessantemente forgia armi di iniquità dalla fornace dell'avarizia contro il re che, nel suo santo pellegrinaggio sotto la protezione del Dio dei cieli e il supporto della Romana Chiesa, ha catturato e costretto in catene e che sta uccidendo con la prigione. [...] Rattrista pubblicamente la Chiesa ed eccita i mormorii del popolo alle spese della considerazione che hanno di Voi che, di fronte a tale crimine, a tali lacrime, alle suppliche di così tante provincie, non avete inviato un messaggero a questi principi. Spesso, per cause insignificanti, i Vostri cardinali sono stati inviati in legioni, persino in regioni barbare; eppure per questa ardua causa comune non avete inviato un suddiacono o un accolita. Il profitto fa i legati oggi, non il rispetto per Cristo, né l'onore della Chiesa, né la pace dei regni o la salvezza delle popolazioni"

Lettera II
"[...] Padre di grazia, prego per la fama di abbondanza di vostra grazia, che liberiate l'innocente dalla bocca del leone e dalla mano della bestia. Quale vantaggio prendereste dal suo sangue, che è stato visto dalla vostra mano? Svegliatevi. Signore, perché dormite, alzatevi e non nascondetevi da noi per sempre. Se non il dolore di questa infelice peccatrice, o altissimo pontefice, possa il clamore del povero, la vista dell'incatenato, il sangue dell'ucciso, la spoliazione delle chiese e l'oppressione diffusa muovervi. [...] Quale scusa può modificare la vostra mancanza di cura quando è chiaro a tutti che avete il potere di liberare mio figlio ma non ne avete la voglia? nessun re, né imperatore, né duca è esentato dalla vostra giurisdizione"

Lettera III
"[...] Le mie viscere sono estratte da me, la mia famiglia è allontanata. Il giovane re (Enrico) e il conte di Britannia (Geoffrey), riposano nella polvere, e la loro infelice madre è destinata a essere tormentata irrimediabilmente dalla memoria della morte. Due figli rimangono a mio sollievo che oggi sopravvive per punirmi, miserabile e condannata. Re Riccardo è tenuto in catene. Suo fratello, Giovanni, riduce il suo regno con il ferro e lascia che si rovini con il fuoco. In tutto il Signore è crudele verso di me e mi attacca con la sua mano. I miei figli combattono tra loro in una lotta in cui, mentre uno è ridotto in catene, l'altro, aggiungendo dolore a dolore, medita per usurpare il regno con crudele tirannia.
[...+ Davvero Voi potreste offrire la vostra vita per lui, Voi che fin'ora non avete voluto dire o scrivere una parola. Tre volte ci sono stati promessi legati ma non sono stati inviati; se posso parlare francamente sono molto più "legati" (in catene) che messaggeri. Se mio figlio fosse in prosperità arriverebbero a una semplice chiamata perché si aspetterebbero ricca ricompensa."

Da queste lettere si intuisce che il papa preferisse temporeggiare per vedere un po' come andavano le cose: l'Inghilterra non era una potenza comparata al Sacro Romano Impero di Enrico VI così Celestino III si limitava a promettere ambasciatori senza però inviarli. Alla fine però, forse per il mutare delle circostanze, forse perché quella madre cominciava davvero a seccare, lanciò una scomunica prima contro Leopoldo V e, successivamente, contro Enrico VI. Contemporaneamente Eleonora trattò il riscatto del figlio pagando 150000 soldi, un po' di tasca propria, un po' frutto di una tassazione straordinaria.
Re Riccardo tornò a casa e Robin Hood non c'entra niente.


lunedì 13 aprile 2009

Lisbona e il paradosso dell'ottimismo

Il giorno di Ognissanti del 1755 un terremoto pari al IX grado della scala Richter ebbe come epicentro la città di Lisbona provocando decine di migliaia di vittime. Il Portogallo era un paese fervente cattolico e la coincidenza della tragedia con una festività cattolica piombò teologi e filosofi in una situazione di empasse.

Eventi simili si erano già verificati, negli anni precedenti, in molte parti d'Europa ma il terremoto di Lisbona assunse un significato particolare grazie a Voltaire e al suo "Poema sul disastro di Lisbona" del 1756, destinato ad aprire un dibattito culturale che avrebbe coinvolto i maggiori filosofi dell'epoca.

Voltaire si inserisce nella polemica contro l'ottimismo metafisico già iniziata, proprio da lui, con il romanzo filosofico "Zadig" e che avrebbe trovato il suo culmine con il "Candide"; tale polemica aveva come bersaglio Leibniz e il suo concetto filosofico secondo il quale "tutto è bene nel migliore dei mondi" ispirato dal concetto della perfezione di Dio. Un disastro come la distruzione della città di Lisbona sembrò a Voltaire la più grande confutazione di ogni ottimismo filosofico o teologico.


O infelici mortali! O terra di pietà!

O cumulo spaventoso di tutti i flagelli!

Successione eterna di inutili dolori!

Filosofi illusi, che gridate "Tutto è bene",

accorrete, contemplate queste orrende rovine,

queste macerie, questi detriti, queste ceneri miserande,

queste donne, questi bambini ammucchiati l'uno sull'altro,

queste membra disperse sotto i marmi infranti;

centomila sventurati divorati dalla terra,

che terminano i loro giorni miserevoli sanguinanti, straziati e ancora palpitanti,

sepolti sotto le loro case, senza soccorso, fra orribili tormenti!

Direte vedendo questi orribili mucchi di vittime

"Dio si è vendicato, la loro morte è il prezzo dei loro delitti?"

Quale errore, quale delitto hanno commesso questi fanciulli

schiacciati, sanguinanti, sul seno materno?

Lisbona, che più non esiste, ebbe forse vizi maggiori

di Londra, di Parigi, immerse nei loro piaceri?

Lisbona è distrutta e a Parigi si danza.


è in quel "tout est bien", tutto è bene, che l'enfasi polemica si pone, la sofferenza umana non trova nessuna giustificazione nel provvidenzialismo e nemmeno la trova nell'idea di castigo divino, teoria avanzata da una parte del clero cattolico. 


A questo poema risponde Jean-Jacques Rousseau in una lettera del 18 agosto 1756. Il filosofo distingue tra "tutto è bene" e "tutto è il bene" dove l'articolo pone l'accento sulla bontà del creato nel suo complesso e non delle sue singole parti: «Uomo, sii paziente, i tuoi mali sono una conseguenza ineluttabile della natura umana e della costituzione di quest’universo. L’Essere eterno e benevolo che lo dirige avrebbe voluto tenerli lontani da te: tra tutte le varianti possibili ha scelto quella che aveva meno male e più bene o, per dire la cosa più brutalmente, se non ha fatto meglio vuol dire che non era possibile farlo»

 

Poi si sofferma sulla responsabilità di quella catastrofe:

"Restando al tema del disastro di Lisbona, converrete che, per esempio, la natura non aveva affatto riunito in quel luogo ventimila case di sei o sette piani, e che se gli abitanti di quella grande città fossero stati distribuiti più equamente sul territorio e alloggiati in edifici di minor imponenza, il disastro sarebbe stato meno violento o, forse, non ci sarebbe stato affatto. Ciascuno sarebbe scappato alle prime scosse e si sarebbe ritrovato l’indomani a venti leghe di distanza, felice come se nulla fosse accaduto. Ma bisogna restare, ostinarsi intorno alle misere stamberghe, esporsi al rischio di nuove scosse, perché quello che si lascia vale più di quello che si può portar via con sé. Quanti infelici sono morti in questo disastro per voler prendere chi i propri abiti, chi i documenti, chi i soldi? Forse non sapete, allora, che l’identità personale di ciascun uomo non è diventata che la minima parte di se stesso e che non vale la pena di salvarla quando si sia perduto tutto il resto?"

Avreste voluto — e chi non l’avrebbe voluto! — che il terremoto si fosse verificato in una zona desertica, piuttosto che a Lisbona. Si può dubitare che non accadano sismi anche nei deserti? Soltanto che non se ne parla perché non provocano alcun danno ai Signori delle città, gli unici uomini di cui si tenga conto. Del resto, ne provocano poco anche agli animali e agli indigeni che abitano, sparsi, questi luoghi remoti e che non temono né la caduta dei tetti, né l’incendio delle case. Ma che significa un simile privilegio? Vorrebbe forse dire che l’ordine del mondo deve assecondare i nostri capricci, che la natura deve essere sottomessa alle nostre leggi e che per impedirle di provocare un terremoto in un certo luogo basta costruirvi sopra una città?"

Una pregnante conclusione Rousseau la lascia nell'apertura dell'"Emile": "Tutto è bene nascendo dalle mani dell'autore delle cose e tutto degenera tra le mani dell'uomo."


La scossa di terremoto, che durò, riportano le cronache, sei minuti, provocò, l'ora seguente un'onda anomala dell'altezza di 12 metri che sommerse il porto e la città bassa.

Ecco come Voltaire immagina la scena nel "Candide":

Una metà dei passeggeri, sfiniti, stremati dalle inimmaginabili angosce che il rullio d'un vascello provoca nei nervi e negli umori tutti del corpo agitati in senso opposto, non avevano nemmeno la forza di allarmarsi del pericolo. L'altra metà urlava e pregava; le vele eran strappate, gli alberi spezzati, il vascello squarciato. 

[...]

Quando si furono un poco rimessi, s'incamminarono verso Lisbona; restava loro qualche soldo, col quale speravano di scampar dalla fame dopo esser scampati alla tempesta.

Hanno appena messo piede in città, piangendo la morte del loro benefattore, ecco che la terra trema sotto i loro piedi; il mare si gonfia spumeggiando nel porto, e spezza le navi ancorate. Turbini di fiamme e cenere coprono strade e pubbliche piazze; crollano le case, i tetti si rovesciano sulle fondamenta, le fondamenta scompaiono; trentamila abitanti di ogni età e sesso son schiacciati sotto le macerie.

[...]

Un ometto nero, familiare dell'Inquisizione, che gli stava accanto, prese educatamente la parola e gli disse:

“Si direbbe che il signore non crede al peccato originale; poiché, se tutto va per il meglio, non c'è dunque stata né caduta né castigo”.

“Domando umilissimamente perdono all'Eccellenza Vostra” rispose Pangloss ancora piú educatamente “perché la caduta dell'uomo e la maledizione entravano necessariamente nel migliore dei mondi possibili”. 


Anche Immanuel Kant si inserì nel dibattito filosofico originato dal terremoto di Lisbona pubblicando, nel 1756 "Storia e descrizione naturale dei fenomeni più considerevoli del terremoto che alla fine del 1755 ha scosso gran parte della terra". La tesi centrale è volta a dimostrare che i terremoti sono fenomeni naturali prodotti dalle stesse leggi di natura che reggono ogni altro evento sulla Terra conducendo un'analisi esclusivamente scientifica del terremoto pur non tralasciando considerazioni di ordine morale: l'universo di Kant è buono in quanto ordinato secondo leggi meccaniche impostegli da Dio difendendo così la peculiarità della scienza moderna, che esclude ogni causa finale, e l'ottimismo metafisico leibniziano.

Noi abitiamo tranquilli su un suolo le cui fondamenta vengono di tanto in tanto scosse. Edifichiamo senza darci troppo pensiero su volte le cui colonne talvolta vacillano minacciando di crollare