Bimbe in vacanza dai nonni a venti metri da casa e noi a spasso per il centro della domenica della Primavera del Fai.
Le nostre guide turistiche saranno i ragazzi delle scuole di Fano, medie e superiori che, vinta la timidezza iniziale, ci accompagnano lungo il percorso museale.
Prima tappa Museo Archeologico, fresco di un restauro che ha coinvolto gli ambienti, l'impianto elettrico e soprattutto l'installazione di deumidificatori e, finalmente dico io, di nuove teche con un'adeguata illuminazione a LED e l'aggiornamento degli apparati didascalici finalmente anche in inglese.
Il Museo Archeologico come è oggi
Unica nota stonata di questo restyling è il fatto che non si sia provveduto a tradurre in inglese anche i cartelloni riassuntivi presenti nelle sale e che le brochures a disposizione dei turisti siano tutt'ora solo in italiano. Nonostante questo dettaglio il museo trasmette un'idea di luminosità e pulizia di cui si sentiva davvero il bisogno, un grande passo avanti per inserire Fano nel circuito museale nazionale a testa alta.
Il Museo Archeologico come era
Seconda tappa: Palazzo Bambini. Nei sotterranei della ex Cassa di Risparmio di Fano si trovano i resti di una domus dell'Antica Fanum Fortunae che mantengono parzialmente conservate alcune murature, pavimenti a mosaico, una vasca di raccolta di acqua piovana e una canaletta fognaria. Palazzo Bambini non è aperto al pubblico di solito, giornate come questa sicuramente offrono ai cittadini curiosi l'opportunità di godere di opere altrimenti inaccessibili.
La domus romana nei sotterranei di Palazzo Bambini
Mentre ci troviamo nel palazzo una responsabile del Fai ci invita a seguirla per fruire di altre opere in teoria escluse dal percorso, senza pensarci due volte la seguiamo con l'acquolina alla bocca e veniamo accompagnati in quelli che sembrano uffici di rappresentanza sulle cui pareti trovano posto opere di arte contemporanea.
Non millanterò una conoscenza che non ho: non li conoscevo ma ho trovato il tutto armonico, sapientemente dosato nei colori e nelle dimensioni, sicuramente meriterebbe un approfondimento ma mi è difficile immaginare come e quando visto che queste sale non sono accessibili al pubblico e non rientrano nei percorsi culturali. Sulle pareti l'autoritratto di un Pietro Arrigoni sonnecchiante, un ritratto del compositore Gioacchino Rossini di Tullio Pericoli, una natura morta di Alfieri e una scultura di Apolloni.
Ritratto del compositore Gioacchino Rossini di Tullio Pericoli
Se qualcuno capitando su questa pagina dovesse riconoscere le opere qui fotografate lasci un commento per spiegarmi di chi e cosa si tratta, ne sarei ben felice.
Lasciamo il nucleo museale di Piazza XX Settembre e ci incamminiamo verso il Caffè Centrale quando la nostra attenzione viene catturata da un totem che segnala il museo di Scienze naturali di Palazzo Bracci Pagani, come un furetto Matteo si infila nel portone e ritrova improvvisamente energie. DEVE assolutamente vedere qualcosa di scientifico altrimenti tra la Lucrezia Lante della Rovere di ieri sera e i ruderi e i dipinti di oggi potrebbe commettere una pazzia.
... E il museo è sorprendente!
Al Circolo Culturale “G. Castellani” spetta l'onore della gestione scientifica e operativa di una collezione di circa 5.000 reperti fra fossili e minerali derivanti da donazioni del Circolo Castellani e di privati cittadini. Curato nei minimi dettagli dall'apparato informativo alle teche emerge l'enorme passione con cui i volontari si dedicano al mantenimento del museo. E' davvero un ottimo esempio di sinergie tra Fondazioni, volontariato e Pubblico, il fruitore ha la possibilità di godersi l'esposizione semplicemente e quella di approfondire con una guida scaricabile grazie a un QRCode. Decisamente pollici in alto!
Si conclude la mattinata Fai al Caffè Centrale ad osservare il passeggio dei Fanesi che escono dalle chiese, quelli che hanno goduto come noi dei musei aperti e dei ragazzi ciceroni per un weekend che si raccontano a vicenda la mattinata pronti a ricominciare nel pomeriggio.
Se si vuole iniziare a leggere Virginia Woolf lo si deve fare partendo da questo scritto. Ho fatto l'errore di iniziare dai romanzi e non ho saputo apprezzarla ma qui sì!
Davvero!
E probabilmente grazie a questo saggio, a questa confessione, sfogo, posso pensare di riprendere in mano i suoi romanzi anzi, dovrebbero dirlo tutti i professori di inglese nelle scuole e nelle università: "Non iniziate a leggere i romanzi della Woolf se prima non avete letto Una stanza tutta per sé".
Perché? Perché offre il passepartout per la sua produzione letteraria, la lente con la giusta gradazione per vedere nitidamente il suo pensiero.
Basato su due conferenze che l'autrice tenne nel 1928 su "Le donne e il romanzo" sarebbe dovuto essere una digressione sulle figure femminili che hanno esplorato l'arte del romanzo fino a farlo proprio inventando di fatto un nuovo genere letterario e un nuovo linguaggio ma qualcosa è sfuggito di mano, il testo ha preso una sua strada lasciandosi guidare da quel flusso di coscienza che è diventato il tratto distintivo della Woolf e tutto quello che lei ha potuto fare è stato dargli una struttura, arginarlo per quanto possibile, come un fiume gli ha dato argini entro i quali scorrere assecondando la sua corsa.
E che corsa!
Il primo terzo del libro è dedicato a rispondere al quesito "Quali sono le condizioni necessarie a produrre un'opera d'arte" e le condizioni sono principalmente due: una rendita annuale che garantisca il sostentamento e una stanza tutta per sé.
La rendita
Le donne sono sempre state povere, o meglio, le donne non hanno mai davvero potuto possedere del denaro. Nel Regno Unito solo dal 1870 le donne sposate diventavano proprietarie dei soldi che ereditavano o guadagnavano, prima di allora tutto ciò che la donna ereditava o guadagnava diventava di fatto proprietà del marito e la donna non poteva disporne se non con il consenso dello sposo. Le nubili e le vedove invece potevano disporre del proprio denaro liberamente.
Una rendita annuale di 500 sterline Virginia l'aveva ereditata da sua zia e così la racconta: "La notizia dell'eredità mi raggiunse una sera più o meno alla stessa ora in cui veniva approvata la legge che concedeva il voto alle donne. (...) Delle due cose - il diritto al voto e il denaro - il denaro, devo ammetterlo, mi sembrò di gran lunga la più importante".
Prima di allora si era guadagnata da vivere "mendicando lavori saltuari presso i giornali, scrivendo indirizzi sulle buste. (...) il fatto di dover fare sempre un lavoro che non si aveva voglia di fare e di farlo come una schiava, adulando e lusingando e il pensiero di quel solo talento destinato a perire diventò una specie di ruggine." Con la rendita "Cibo, alloggio e vestiario sono miei per sempre. (...) Non ho bisogno di odiare nessun uomo; egli non può ferirmi. Non ho bisogno di adulare nessun uomo; egli non ha niente da darmi."
La rendita affranca la donna dalla dipendenza dall'uomo e, badate bene, qui si parla di rendita perché all'epoca i lavori permessi alle donne erano pochi, di infima considerazione e con guadagni talmente bassi che non potevano garantire una vita dignitosa, all'epoca della stesura di questo saggio, 1929, la possibilità che una donna potesse fare lo stesso lavoro di un uomo (e avere la stessa retribuzione) era talmente remota che non viene presa nemmeno in considerazione.
La Stanza
Altra condizione indispensabile alla produzione letteraria è La stanza, la stanza tutta per sé che non sia un luogo di passaggio di invitati, parenti, panni da lavare e stendere, bambini da accudire, mariti da sfamare, un luogo fisico in cui il pensiero possa lasciarsi cullare dal silenzio.
L'istruzione
Il tema dell'istruzione ritorna costante in tutta la prima parte del libro. I dettami dell'educazione vittoriana riservavano alle donne un'istruzione casalinga fatta di lezioni di piano, cucito e poco altro, riservando gli studi solo ai maschi.
Scrive all'inizio del libro immaginandosi nel giardino della fittizia Università di Oxbridge: "quell'uomo era un custode; io ero una donna. Qui c'era il prato, più in là il vialetto. Soltanto ai Membri del college e agli Studiosi è consentito poggiare i piedi qui: il mio posto è la ghiaia" e poi ancora "si rammaricava del fatto che le signore avessero accesso in biblioteca solo se accompagnate da un Membro del College o se fornite di una lettera di presentazione."
Se quando parla dei soldi e della stanza la Woolf mantiene una scrittura oggettiva e pacata, quando tratta il tema dell'istruzione si trasforma in iena, il rancore profondo e l'invidia sono mal celate dalla sua ironia, è più forte di lei: il fatto che i suoi fratelli maschi abbiano avuto accesso all'istruzione pubblica e lei no le brucia immensamente, a maggior ragione perché la sua non era una qualunque famiglia borghese: il padre era uno storico e critico letterario e la madre apparteneva a una delle famiglie dell'alta società londinese, la sua casa era frequentata dai maggiori intellettuali e scrittori dell'epoca ma a lei il mondo della cultura era stato precluso: il suo posto è la ghiaia. La rabbia viene trasformata in ironia ma nulla riesce davvero a celare il risentimento.
Gli appunti sul libro
Confesso che iniziando a prendere appunti su questo saggio avevo tutta un'altra intenzione: scrivere del femminismo dei primi del Novecento, del diritto della donna all'istruzione, della scrittura femminile... le cose non sono andate proprio così. Ho ripercorso velocemente gli appunti presi a margine del libro e li ho buttati giù a blocchi. Un paragrafo qua, un paragrafo là, poi li ho riletti per definirne i concetti principali, le prime impressioni e difficilmente riesco ad esprimere la mia delusione nello scoprire che la maggior parte delle note riguardava sentimenti di rancore, nostalgia, invidia e relativamente poco spazio veniva dedicato alla scrittura femminile.
Testimoni di questo rancore sono le parole rivolte per lettera all'amica Ethel Smyth: "Non ho scritto una stanza, ammetterai, senza un notevole coinvolgimento; l'argomento non mi lascia certo fredda. Mi sono sforzata di mantenere la mia figura fittizia, leggendaria. Se avessi detto, guardatemi, sono ignorante, perché tutti i soldi di casa sono stati spesi per i miei fratelli, che è la verità - bene, avrebbero detto, tira l'acqua al suo mulino, e nessuno mi avrebbe preso sul serio"
La scrittura femminile
Alla scrittura femminile la Woolf dedica la seconda metà del saggio passando in rassegna autrici inglesi dalla seconda metà del Seicento fino ai suoi tempi.
Le prime autrici citate sono Lady Winchislea e Margareth di Newcastle che la Woolf descrive come "perseguitata e distratta da odii e rancori. (...) Eppure è chiaro che il fuoco bruciava dentro di lei, se solo avesse avuto la mente libera dall'odio e dalla paura e non ingombra di amarezza e risentimento.""Ambedue nobili, ambedue senza figli, ambedue sposate con uomini di grande qualità. In entrambe ardeva la stessa passione per la poesia, entrambe appaiono sfigurate e deformate dalle stesse ragioni.".
La stessa deformazione la Woolf la vede negli scritti di Charlotte Bronte i cui libri risultano "deformati e contorti", che "scriverà con rabbia, mentre dovrebbe scrivere con calma. Scriverà con tono frivolo mentre dovrebbe scrivere con tono saggio. Scriverà di se stessa mentre dovrebbe scrivere dei suoi personaggi."
La stessa deformazione, ahimè, si riscontra tra le pagine della Woolf in questo saggio: invidia, rancore, desiderio di rivalsa e denigrazione di un maschio che ha bisogno della donna "come specchio, dal potere magico e delizioso di riflettere la figura dell'uomo ingrandita fino a due volte le sue dimensioni normali. Come farebbe lui a continuare a esprimere giudizi, a civilizzare indigeni, a promulgare leggi, a scrivere libri (...) se non fosse più in grado di vedere se stesso, a colazione e a cena, ingrandito almeno due volte la sua stessa taglia?"
Nel Settecento si presenta alle donne la possibilità di scrivere e di guadagnare scrivendo. Una delle prime è Aphra Behn che, rimasta vedova, dovette guadagnarsi da vivere con il proprio ingegno mettendosi a scrivere, alla fine del secolo molte donne si aggiunsero cominciando a guadagnare con la propria scrittura, iniziarono a frequentarsi, incontrarsi, scrivere saggi di letteratura, tradurre classici...
Una rivoluzione.
La donna della classe media cominciò a scrivere
"Il denaro conferisce dignità a ciò che è frivolo quando non viene pagato"
Con Jane Austen la donna inizia a scrivere senza odio né rancore, scrivere da donna senza scimmiottare, senza rabbia o moralismi, Virginia Woolf lo definisce "il miracolo di Jane Austen". Austen, Bronte, Eliot scrivevano di ciò che conoscevano bene, della vita quotidiana, della società di campagna, di Bath, di istitutrici e mulini. Era il loro territorio, la loro essenza, narrata con un nuovo linguaggio che si rifaceva al tono degli epistolari: da secoli le donne scrivevano: scrivevano lettere ad amiche lontane e conoscenti per raccontare la loro vita, gli accadimenti della loro città, i pettegolezzi... con Jane Austen, George Eliot ed Emily Bronte questo linguaggio contribuì di fatto a creare un genere letterario: romanzi scritti da donne che scrivono come scrivono le donne, senza scimmiottare la scrittura maschile.
E con il nuovo linguaggio del romanzo compaiono nuovi intrecci e nuovi sentimenti: la donna non è più angelo come Ofelia e non è più demone come Fedra (entrambe creature maschili): è finalmente un essere umano: "fino ai tempi di Jane Austen non solo erano viste attraverso gli occhi dell'altro sesso ma erano viste unicamente in rapporto all'altro sesso." Fino alla Austen metà della popolazione mondiale non aveva trovato vera rappresentazione nella letteratura non tanto perché non presente, era presente eccome, ma era sempre vista attraverso gli occhi dell'uomo, santa o strega, madre o amante.
Amica mai.
I suoi sentimenti erano amore, follia, odio, devozione, tutto portato agli estremi. Quando le donne iniziarono a scrivere irruppero nella letteratura sentimenti poco "letterari" forse ma sicuramente più umani, più verosimili.
La mia stanza tutta per me. Alle spalle i libri di una vita oltre la finestra il mare
E poi l'assenza
Terminata la lettura rimugino sullo scritto, un senso pesante di rancore aleggia nell'aria e un'assenza.
Questa assenza diventa sempre più ingombrante: la Woolf non menziona Mary Shelley.
Perché?
Poiché la Woolf aveva tenuto lezioni nelle università sono andata a cercare riferimenti alla Shelley in altre circostanze... non ne ho trovati.
Perché?
Forse una risposta si può trovare qui: perché la Shelley aveva avuto dalla famiglia e dalla vita tutto quello che Virginia aveva desiderato: una stanza tutta per sé, una rendita e soprattutto una buona educazione, esperienze di viaggi e l'incoraggiamento dei suoi familiari.
"Mary Shelley possiede quella mente incandescente e androgina che la Woolf ritiene necessaria alla produzione di buona prosa: non ha ragione di provare rabbia, acredine o risentimento perché nonostante la società ottocentesca non la incoraggi ottiene un'educazione di qualità e può contare sul supporto della sua famiglia paterna e di suo marito P.B.Shelley.
Oh, probabilmente jè rode.
La conclusione la lascio a Virginia: "Nel bene o nel male ho apportato l'ultima correzione a le Donne e il Romanzo, o Una stanza tutta per sé. Non lo rileggerò più, penso.
Bello? Brutto? C'è un'inquieta vitalità, si sente una creatura che inarca la schiena e galoppa, anche se come al solito c'è parecchio di fiacco, di inconsistente, di stridulo".
EDIT 03.05.2018 E ditelo che questo testo si deve assolutamente leggere prima di affrontare Possessione di Antonia Byatt!!! Letto prima è un testo onanistico arzigogoloso, letto dopo rasenta il plagio intellettuale!
Magnetica, questa è la prima parola che mi viene in mente se ripenso al monologo di Io Sono Misia.
Una narrazione di un'ora in cui vengono ripercorse con retrospezioni le tappe principali della vita di questa donna straordinaria. Misia Sert. Dalla neve russa sulla quale afferma di essere nata mentre sua madre moriva di dolore alle lezioni di pianoforte sulle ginocchia di Liszt, la nonna che sbocconcella pasticcini con la regina del Belgio, Toulouuuuuuuuse!!!, piccolo folletto innamorato e poi Nižinskij, Renoir e Cocò, Chanel, la sua amica, mai citata con il suo nome nella sua autobiografia.
Mi è piaciuta Lucrezia Lante della Rovere, la scenografia con questa immensa poltrona, i toni del verde e del rosso ad accentuare i contrasti di una vita che bruciava, bruciava, che ha bruciato tutto: oggetti, disegni, emozioni, ricordi e tempo. L'immensa, surreale poltrona, i capelli pazzamente rossi ericci mi riportano alla mente la figura del cappellaio matto intento a festeggiare, brindare alla salute dei convitati e di se stesso in una festa che ora è baccanale ora invece commemorazione dei defunti. La vita bruciata dei primi del Novecento tra il laudano di Verlaine e la morfina di Cocteau... Creando, plasmando arte e artisti, amati, coccolati, vezzeggiati e derisi.
Si, derisi!
Chi arriva ultimo bacia Toulouuuuuuuuuse!
Il monologo procede per immagini, le scene una dopo l'altra si materializano davanti agli occhi dello spettatore che non riesce a distogliere l'attenzione dalle parole. I gesti, la scenografia, la musica, tutto ha come unico scopo quello di sottolineare le parole, la parola è tutto, quella di Misia Sert, la sua versione della storia, o meglio, la sua versione della Storia, di quelle vite straordinarie che ogni tanto il Genio che governa la natura decide di far convogliare nello stesso luogo e nello stesso periodo affinché si incontrino, si influenzino, si compenetrino e al centro pone una musa ispiratrice, una mecenate che catalizza il genio, lo smaschera, lo sbuccia e lo palesa al mondo rendendolo eterno.
E Misia Sert ricalca le orme di altre grandi donne del passato, di Caterina de' Medici, Isabella Gonzaga, Lucrezia Borgia: musa e mecenate, ha contribuito alla fortuna dei più grandi artisti di fine Ottocento e inizio Novecento da Toulouse Lautrec a Proust a Nižinskij a Debussy e Picasso.
Viziata sì! Megalomane sì! Istrionica sì!
Misia e Coco nel 1935
Una di quelle creature che riescono a fare della propria vita un'opera d'arte e Lucrezia Lante della Rovere quell'arte la porta in palcoscenico facendo rivivere quella Misia descritta nell'autobiografia, scritta affinché ai posteri possa essere tramandata la sua versione, non quella di altri che l'hanno vista e non conosciuta, come quei critici che imprigionano l'arte nelle teche, la fissano nel tempo come si fissa una farfalla morta nella collezione, bellissime e morte, che la rimproverarono di aver bruciato, perso, regalato opere dei grandi artisti che coltivava perché lei il peso lo dava alle persone e non agli oggetti, perché come scrive in "Misia" "Non riesco a provare il minimo rimorso per il fatto che una quantità di bei versi siano andati perduti, o che decine di disegni di Toulouse-Lautrec, fatti sui miei menù, siano stati spazzati via dalla mia sala da pranzo insieme alle briciole della cena della sera prima, né per il fatto di non essere più riuscita a ricordarmi in quale cassetto avevo ficcato quel sonetto di Verlaine (...) Sono sempre stata convinta che gli artisti avessero più bisogno di amore che di rispetto. Io li ho amati, loro, i loro piaceri, il loro lavoro, le loro pene e la loro gioia di vivere era anche la mia".
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La parola dà vita a scene che si susseguono, si inseguono, si accavallano l'una dopo l'altra, l'una sull'altra e nella mente si materializzano le immagini degli artisti dell'epoca, accennati appena da lampi di ricordi, flash, suggestioni, ripercorrendo l'autobiografia della donna e mi è difficile immaginare come lo spettatore che non conosce Misia Sert, che non ha letto la sua autobiografia possa comprender fino in fondo ciò che sta guardando.
Il libro è una sequenza di ricordi, impressioni, avvenimenti ed emozioni che si alternano gli uni agli altri in ordine cronologico sì, ma offrendo poche date per orientare il lettore, come un flusso di coscienza i ricordi scritti scorrono come fiume in piena, appena arginati nella furia della corrente.
Il monologo è un tornado nel cui centro viene attratta tutta la narrazione e da cui vengono sputati fuori, caotici e informi, i brandelli di quella storia, nomi, città, epoche che si ristrutturano nella mente dello spettatore obbligato a raccogliere i frammenti di informazioni gettati alla rinfusa fuori dal tornado per ridargli ordine, forma, sequenza.
L'impressione è che senza il supporto dell'autobiografia non sia possibile la piena comprensione del monologo e che le esagerazioni, quasi affettazioni, della recitazione suonino pesanti, forzate, che si perda infine tutto il senso del finale, quel rincorrere la vita, la gioia, rigettare i ricordi, la loro polvere e tutte le madeleinettes cui era tanto legato Proust, quell'invocazione a Coco, alla sua amica, il desiderio, l'ansia di dover vivere ancora, fare ancora, amare ancora, aggrappandosi alla vita che inesorabilmente scivola tra le dita.
Ecco, l'intensità di quel finale è qualcosa che difficilmente si riesce a rendere con le parole, impossibile da descrivere, tutto solo da vivere in crescendo, crescendo, crescendo, come un Bolero.
Quando: 15 marzo 2018, il giorno dopo il Pi Greco Day, il giorno dopo la morte di Stephen Hawking. I due fatti non potevano certo passare inosservati.
Dove: Teatro Nuovo Melograno di Senigallia, una ex carrozzeria trasformata in teatro nel 2014, un piccolo gioiellino di passione da cento posti, curato nei minimi particolari: un foyer ampio e luminoso, raddoppiato da un imponente specchio che conferisce sensazione di spazio, decorato con stucchi classici e divani moderni, una sala allegra dalle poltrone colorate e una buona macchinetta del caffè che per una coffee addicted come me non guasta.
Odifreddi si introduce da solo dicendo che dopotutto Hawking era "uno scienziato non così straordinario" dando così allo spettatore che non conosce il matematico la possibiltà di scandalizzarsi ed eventualmente darsela a gambe levate. Non ha peli sulla lingua lui, probabilmente non ha neanche un battere che possa filtrare il suo pensiero quando inizia a fluire e nel dopo spettacolo ne darà piena prova.
Galileo Galilei – Sidereus Nuncius (1610) Luna
Pronti! Allacciamo le cinture e si parte per un viaggio sulle lune in cui ci faranno compagnia Plutarco e Calvino e poi Dante, Ariosto, Galileo, Leopardi, Wells e Verne. Per Dante la luna è mistica, la natura delle macchie lunari è di ordine metafisico e non può essere dimostrata in modo scientifico (Paradiso, Canto II), per Ariosto è il ricettacolo delle cose perdute tra cui il senno di Orlando (Orlando Furioso, XXXIV) "Le lacrime e i sospiri degli amanti, l'inutil tempo che si perde a giuoco, e l'ozio lungo d'uomini ignoranti, vani disegni che non han mai loco, i vani desideri sono tanti, che la più parte ingombran di quel loco: ciò che in somma qua giù perdesti mai, là su salendo ritrovar potrai.", Galileo ne parla nel suo Sidereus Nuncius con stupore e meraviglia raggiungendo vette altissime di prosa paragonabile ai maggiori autori di letteratura perché, come ha sottolineato Odifreddi, Galileo è uno di quelli che la scienza l'ha inventata perciò quando ha incominciato non potendo far scienza faceva letteratura (pdf integrale del Sidereus Nuncius in italiano disponibile qui), Leopardi ci fa conversazione nel Canto a lei dedicato e in altri poemi e frammenti e Verne infine inaugura il romanzo scientifico.
LEONARDO DA VINCI
Studi sulla dimensione della Terra e della Luna
in rapporto al sola
Codice Hammer (ex-Leicester),
Collezione B. Gates, Seattle
(Washington) USA, c.1r
Il matematico conduce la sua navicella dalla terra alla luna, espone come la luna fosse vista dalla terra, sia dal punto di vista scientifico che da quello mitologico/letterario attraverso il mito del ratto di Proserpina, e poi sulla luna ci porta grazie a Keplero scivolando sui coni d'ombra delle eclissi affrontando il tema del viaggio lunare dal punto di vista scientifico con attenzione al problema dei tempi di percorrenza del tragitto terra-luna e di come sopravvivere all'accelerazione senza ritrovarsi mucchio di ossa e carne alla rinfusa.
Quindi sulla luna ci fa girare e osservare la terra da lassù e tutti che fanno Oooooohhhhhh!
E poi ancorapiù in là fino a Saturno seguendo la sonda Cassini Huygens, infilandoci tra gli anelli e ridendo di Giapeto la luna "spazzino" tutta pulita da un lato e sporca dall'altro e oltre, fuori dal sistema solare, quel puntino segna il "voi siete qui" della galassia e di nuovo tutti Ooooooooohhhhhh!
E mentre guardiamo oltre l'oblò di questa navicella spaziale immaginaria il nostro Cicerone ci parla di Parmenide, Eraclito, Lucrezio, Calvino, Touring, Shakespeare, Aristotele e la Scolastica lanciando strali interplanetari ad Aldo Busi, Baricco e Spilberg e a quegli Inglesi che per aver condannato un genio come Touring per la sua omosessualità si sono ben meritati la Brexit.
Il matematico ha l'allure del gatto: con la sua cadenza musicalmente piemontese, le vocali tendenzialmente strette e il suo sorriso sornione e ironico si struscia, blandisce i classicisti presentandoci Galileo come "Uno di noi", un critico letterario inserito nella diatriba tra i sostenitori dell'Ariosto e quelli del Tasso ma sotto sotto ci tratta da necrofili, attaccati a cose vecchie e morte, nell'atto di dissezionare i cadaveri della letteratura in obitorio e lancia frecciatine quando asserisce che "Anche quelli che leggono Dante sanno che l'area di un cerchio si calcola moltiplicando il π per il raggio al quadrato". E noi necrofili lo stiamo ad ascoltare proprio perché siamo umanisti che vanno ad ascoltare un matematico e quindi indiscutibilmente masochisti. Però lo stiamo ad ascoltare perché ci sa fare, perché per parlare di Galileo cita Calvino che lo descrisse come "il più grande scrittore italiano" e per parlare di Keplero cita Borges che lo definì "il primo scrittore di fantascienza"
Non era la prima volta che andavo ad ascoltare Odifreddi, la prima volta fu nel 2009, una conferenza dal titolo “L’allegoria della matematica di Raffaello” alla Corte Malatestiana di Fano. In realtà parlò poco di Raffaello e poco di matematica e molto del suo ateismo con frecciatine al vetriolo contro la religione che fecero storcere il naso a più di una persona come ci ricorda l'autrice del blog Rimarchevole Margherita Durassi. Nove anni sono trascorsi e come un buon vino è invecchiato dolcemente perdendo alcune delle note più aspre, mi ha dato l'impressione di essere meno incattivito e più sereno smentendo felicemente il vecchio assioma che vuole che gli uomini, e le donne, invecchiando possano solo peggiorare. L'ho trovato pacato, equilibrato, ironico ma non più sprezzante, perduto lo slancio forcaiolo dei suoi scritti sulla religione di dieci anni fa, la senilità è stata generosa con lui e con la sua mente regalandogli forse serenità.
E' stato piacevole, tornerei anche domani ad ascoltarlo anche su altri temi perché quello che dice non è mai banale e il suo approccio al mondo umanistico rivitalizza la materia classica stessa dandole nuova forza, illuminandola da una prospettiva differente.
Curiosi? La conferenza intera, senza ovviamente la parte finale di domande e risposte si può guardare sulla pagina del Festival della Comunicazione di Camogli qui sotto embeddato.
Sono parole di Eileen Power che in questo libricino di neanche 200 pagine racchiude le vite di sei persone più o meno comuni del Medioevo, sei "bozzetti", come li definisce lei, che pulsano di vita vera.
Chi ai tempi delle superiori avesse avuto un impatto traumatico con il Medioevo potrebbe ricredersi, lasciarsi attirare e magari diventare un appassionato di questa epoca; l'opera si adatta sia ai neofiti che ai più eruditi per la capacità dell'autrice di rendere vive persone e luoghi lontani centinaia di anni partendo da piccole cose, abitudini, usanze.
Il testo si discosta dalla storiografia classica legata agli atti ufficiali, alla politica, all'economia e attinge da documenti rari, testamenti, note spesa, iscrizioni tombali, toponomastica, storia del costume, documenti ecclesiastici e opere di letteratura tra Chaucer, Boccaccio e Marco Polo alternando la narrazione con lievi digressioni da pettegolezzo che rendono leggera e scorrevole la lettura di un'opera che, in fondo, è un saggio ben strutturato e ricco di informazioni. La pecca, costante nei saggi soprattutto in edizione economica, è la mancanza di supoporti visivi, immagini e illustrazioni che rendano ancora più vivo il racconto. Provo io qui a sopperire a tale mancanza.
Bodo il Contadino
Capitulare: De Villis
Fonte primaria è il libro catastale dell'abate di Saint-Germain-des-Près all'epoca di Carlo Magno, siamo dunque nel VIII secolo. La Power ci introduce nel manso, nella sua struttura, ci spiega l'organizzazione del lavoro e della quotidianità e le diverse prestazioni cui erano soggetti i coloni. Gli uomini lavoravano nei campi o nel distretto come artigiani e le donne lavoravano in un quartiere separato come usavano gli antichi greci, con un ingresso sbarrato come in un harem.
Capitulare de villis vel curtis imperii - Capitolo LXX
"E sia il quartiere delle nostre donne ben sorvegliato, con case e stanze fornite di stufe e dispense, e sia circondato da una buona palizzata, e le porte siano robuste, in modo che le donne possano svolgere convenientemente il nostro lavoro" Carlo Magno - "Capitulare: De Villis". Viene sottolineata la natura sostanzialmente pagana del cristianesimo contadino dell'epoca legato ai ritmi della terra e agli antichi scongiuri e invocazioni e si riporta come la domenica nessun lavoro servile debba esser fatto, eccezioni possono essere solo "il trasporto per l'esercito, il trasporto del cibo e il trasporto del corpo di un signore alla sua tomba."
Marco Polo
Ritratto di Marco Polo da giovane in un’edizione de Il Milione pubblicata a Norimberga nel 1477
Il capitolo si apre con un sintetico excursus su Venezia, la sua ricchezza e la sua espansione nel Mediterraneo che portarono in pochi secoli la città a essere il centro di tutti i traffici mercantili dall'Oriente grazie sicuramente alla conformazione delle sue terre, tutte rivolte al mare, e alla spregiudicatezza dei suoi governanti che non si fecero intimidire dalle scomuniche papali.
"ed appresso che Monsignor Domenico Morosino fu Doge, tenne egli il dogado di Vinegia in grande gioia ed in grande letizia''' e se ne andavano li Viniziani per mezzo il mare qua e là, e di là il mare, ed in tutti luoghi, ed acquistavano mercatanzie e le conducevano in Vinegia da tutte le parti. E le venivano acquistare dirittamente in Vinegia Alamanni e Bavari, Franzesi e Lombardi, Toscani ed Ungheri, e tutte le genti che vivono di mercatanzie, e le conducevano in loro paesi." - La Cronique des Veneciens de Maistre Martin da Canal.
E ancora Petrarca: "Vedi dal lido italico sciogliere adesso innumerevoli navi (...). Le une ad oriente volgon la prora le altre ad occidente, queste incontro a borea, ad austro quelle... Quindi nelle tazze britanne vanno a spumare i nostri vini, il nostro mele è recato a lusingare il gusto degli Sciti, e, difficile a credersi, le legna dei nostri boschi si portano agli Egizi ed agli Achei. Quindi ai Siri, agli Armeni, agli Arabi, ai Persi da noi spedito giunge l'olio, lo zaffarano, ed a vicenda da loro vengono a noi merci diverse." Petrarca, Lettere senili, 1, II, lettera III.
Veduta di Venezia in una miniatura del Libro del Gran Khan, titolo del codice dell’opera di Marco Polo conservato alla Bodleian Library di Oxford
Dall'altra parte del mondo, all'apogeo della loro potenza, c'erano i Tartari, popolazione che affascinava il giovane Marco Polo. Dapprima temuti come un nuovo flagello vennero in seguito visti come un possibile alleato contro il nemico comune: l'Islam. Fu allora che nacque la leggenda del Prete Gianni, re-sacerdote cristiano in terra d'Oriente, allora iniziarono gli scambi di ambascerie e le missioni di cristianizzazione, il padre e lo zio di Marco, Niccolò e Matteo Polo, erano appena tornati dalla Tartaria che subito ripartirono con Marco coprendo territori fino ad allora inesplorati come il lago Lob che fu riscoperto solo nel 1871.
Marco Polo rimase diciassette anni presso il Gran Khan, entrato nelle sue grazie perché diversamente dagli altri funzionari che si limitavano a curare gli affari del Khan, Marco si interessava ai costumi dei diversi territori che costituivano il vasto regno riportando al Khan novelle, usanze e curiosità. Viaggiò lungo i confini del Tibet fino a Yunnan, e penetrò nella Birmania settentrionale: terre che rimasero ancora sconosciute all'Occidente fino al 1860.
La parte più curiosa del racconto è sicuramente l'ultima: gli anni della sua prigionia a Genova a seguito di un attacco alla flotta veneziana, il suo trascorrere i giorni raccontando storie di paesi lontani tanto che "ben presto gli uomini di mondo e di studio e le sfacciate dame genovesi fecero ressa, come già prima avevano fatto gli uomini di Rialto, per ascoltare le storie di Kublai Khan" e il suo compagno di prigionia Rustichello da Pisa "metteva per iscritto i racconti fatti da Marco in mezzo alla folla dei prigionieri veneziani e dei gentiluomini genovesi".
I rapporti tra oriente e occidente continuarono a fiorire dopo di lui fino alla metà del quattordicesimo secolo con la caduta della dinastia tartara che portò a un ritrovato isolazionismo della Cina e l'estensione dell'Islam in tutta l'Asia centrale che rese i viaggi meno sicuri. I racconti di Marco Polo si fecero leggenda fino a quando un capitano di mare genovese, incuriosito dal libro dei viaggi del Polo non si ostinò a voler trovare una nuova strada per l'estremo oriente facendo rotta verso ovest.
"E questa fu l'ultima delle meraviglie di messer Marco, che scoprì la Cina nel XIII secolo, quando era vivo, e nel XV, quando era morto, scoprì l'America."
Verso Est invece i viaggi ricominciarono dal XVIII secolo, ecco perché alcuni dei luoghi già scoperti dai Polo furono "riscoperti" nel XIX secolo. Suggerisco un post molto bello, ricchissimo di immagini sul blog Imparare con la storia
Madame Eglentyne
Miniatura di madama Eglentyne a margine della prima iniziale del racconto della madre priora nel manoscritto Ellesmere Chaucer, uno dei più antichi e più decorati dei Racconti di Canterbury
A partire dal Prologo dei Racconti di Canterbury di Chaucer viene ricostruita la vita nei monasteri inglesi del quattordicesimo secolo.
"Per molto tempo gli storici hanno scioccamente creduto che re, guerre, assemblee parlamentari e sistemi giuridici fossero i soli oggetti della loro ricerca; si dedicavano alle cronache e agli atti dei parlamenti, ma non li sfiorava nemmeno l'idea che si potessero cercare nei polverosi archivi vescovili i grossi libri nei quali i vescovi medievali registravano le lettere che scrivevano e tutti i complicati affari relativi al governo della loro diocesi. Ma quando gli storici si decisero a compiere queste ricerche, trovarono una miniera di informazioni preziose su quasi tutti gli aspetti della vita sociale e religiosa. Dovettero lavorare di scavo, naturalmente, perché quasi tutto ciò che vale la pena di conoscere è come il metallo prezioso che dev'essere strappato alla roccia; e per un solo filone lucente il minatore deve spesso scavare per giorni interi sottoterra in una massa di materia opaca; e quando l'ha raggiunto deve scavare dentro di sé, per riuscire a capirne il significato."
Che palle la storia? No! Che figata la storia!
Dominican nuns in quire From Brit. Mus. Cott. MSS. Dom. A xii f.
Eileen Power ci racconta di quanto fossero lagnose le monache e soprattutto pettegole. Il vescovo doveva passare in rassegna tutti i monasteri del suo territorio e raccogliere le testimonianze delle monache per controllarne il buon andamento. Le lagnanze e i pettegolezzi delle monache non venivano ovviamente riportate nei grossi libri della storia ufficiale ma nei registri vescovili, vere miniere d'oro per gli storici di professione e per i pettegoli della storia. La Power prova a ricostruire una storia verosimile di questa madre priora e del convento sfiorando a tratti il comico: "coloro che avevano stabilito la serie di gesti in uso nei conventi medievali riunivano però un'ingenuità soprannaturale a un'assoluta mancanza di senso dell'umorismo, e quella specie di muto pandemonio che ne scaturiva a pranzo, intorno al tavolo di Eglentyne, deve aver suscitato molto più spesso ilarità di qualsiasi discorso. La suora che desiderava del pesce doveva agitare le mani in posizione obliqua, come fanno i pesci con la coda; se voleva del latte doveva tirare il mignolo della mano sinistra come se stesse mungendo; per la mostarda doveva appoggiare il naso alla parte superiore del pugno destro e sfregarlo; per il sale doveva pizzicare col pollice e l'indice destro il pollice sinistro; se voleva del vino doveva muovere l'indice su e giù sul polpastrello del pollice all'altezza dell'occhio e la colpevole sacrestana, ricordando improvvisamente di non aver preparato l'incenso per la messa, doveva ficcarsi gl'indici nelle narici".
I conventi del tardo Medioevo erano ben lontani dall'ideale di lavoro, silenzio e preghiera ritratti nelle miniature dei manoscritti, la Power si riferisce al registro di John de Grandisson in G.G. Coulton, A Medieval Garner, 1910
E visited the Chapter of Rouen, and found that they talk in choir contrary to rule. The Clergy wander about the church, and talk in the church with women, during the celebration of divine service. The Statute regarding the entrance [of lay folk] into the choir is not kept. The psalms are run through too rapidly, without due pauses. The statute concerning going out at the Office of the Dead is not kept. In begging leave to go forth, they give no reason for so going. Moreover, the clergy leave the choir without reason, before the end of the service already begun; and, to be brief, many other of the statutes written on the board in the vestry are not kept. The chapter revenues are mismanaged [male tractantur].
(...)
We have learned from the lips of men worthy of credit, not without grave displeasure, that certain Vicars and other Ministers of our Cathedral Church—^to the offence of God and the notable hindrance of divine service and their own damnation and the scandal of our Cathedral Church aforesaid—fear not to exercise irreverently and damnably certain disorders, laughings, gigglings, and other breaches of discipline, during the solemn services of the church ; which is shameful to relate and horrible to hear. To specify some out of many cases, those who stand at the upper stalls in the choir, and have lights within their reach at mattins, knowiugly and purposely throw drippings or snuffings from the candles upon the heads or the hair of such as stand at the lower stalls, with the purpose of exciting laughter and perhaps of generating discord, or at least rancour of heart and silent hatred among the ministers (...).
Tanto era diffusa la cattiva abitudine di biascicare, borbottare e saltare i versi delle preghiere per finire più in fretta che si ricorse all'invenzione del Tittivillus, un diavolo raccoglitore delle chiacchierate inutili che avvengono durante le funzioni religiose; e delle parole mal pronunciate, borbottate oppure omesse nelle funzioni stesse; per portarle nell'Inferno.
In un anonimo trattato devozionale inglese del XV secolo, Myroure of Oure Ladye (Lo specchio di Nostra Signora), Titivillus così presenta sé stesso (I.xx.54): "I am a poure dyuel, and my name ys Tytyvyllus... I muste eche day... brynge my master a thousande pokes full of faylynges, and of neglygences in syllable and wordes. (Sono un povero diavolo, e il mio nome è Titivillus... Devo ogni giorno... portare al mio padrone un migliaio di borse piene di errori, e di negligenze nelle sillabe e nelle parole)."
Appare per la prima volta come un demone che porta un sacco, descritto nel Tractatus de Penitentia di John of Wales (ca. 1285), in un verso destinato a diventare famoso attraverso tutto il Medioevo:
Fragmina verborum titivillus colligit horum
Quibus die mille vicibus se sarcinat ille.
Trad.
Titivillus raccoglie i frammenti di queste parole
con cui riempie il suo sacco migliaia di volte al giorno
In seguito divenne "diavolo patrono degli scribi" per giustificare refusi, omissioni, errori di vario genere e marginalia dovuti a noia.
Marginalia dal Rothschild Canticles, Beinecke Rare Book and Manuscript Library, Yale University, MS 404, f. 134r.
Gatto che fa il burro. Rothschild Canticles
E poi insomma, quando penso a tutto questo biascicare litanie la mente non può astenersi dal riandare all'insuperabile Marchese del Grillo e al suo "orapronobis".
Per altre curiosità nel manoscritto Rothschild Canticles rimando alla ricerca per immagini qui: miniature divertenti e decorazioni bellissime.
Torniamo alle nostre suore: le distrazioni non erano solo naturali ma anche anche paganti, era infatti usanza per signore con mariti alla guerra o lontani per commerci o pellegrinaggio trascorrere del tempo in convento, fino a un anno, e queste portavano tra le mura del convento vizi e frivolezze mondane, feste, balli e animali da salotto: cani ovviamente ma anche scimmie, scoiattoli, uccelli e raramente gatti.
Poi c'era il problema che queste monache in monastero non c'erano mai, spesso in viaggio con la scusa dei pellegrinaggi proprio come ci viene presentata madame Eglentyne da Chaucer, in pellegrinaggio verso la tomba di San Tommaso Beckett, da secoli venivano invitate o obbligate a non lasciare le sicure mura dei monasteri ma quelle erano sempre in giro, anche a far baldoria con i frati.
Alla vita delle monache inglesi del medioevo la Power ha dedicato un'intero studio che potete ritrovare qui.
La moglie del ménagier
Miniatura dal « Ménagier de Paris », secolo XV
Basato sul Ménagier de Paris, manoscritto di economia domestica scritto tra il 1392 e il 1394, attribuito a un borghese parigino per istruire la giovane moglie sul comportamento sociale e sessuale, arricchito di ricette e consigli per la caccia e il giardinaggio, il testo viene oggi considerato come il maggior trattato culinario francese del medioevo.
Il tono è gentile e protettivo, rivoluzionario quasi quando chiede alla moglie di fargli onore con il secondo marito visto che più spesso i mariti anziani raccomandavano alle mogli di non risposarsi e non di rado vincolavano l'eredità alla loro permanenza nella vedovanza.
La prima parte tratta di religione e doveri morali illustrati da una serie di racconti. Nel citare i racconti però la Power rivela la sua vocazione più storica che letteraria visto che attribuisce il racconto della paziente Griselda a Petrarca che ebbe in realtà solo il merito di trascriverla in latino contestualizzandola e dandole fama internazionale: il racconto originale è infatti contenuto nel Decameron del Boccaccio.
Il capitolo del Ménagier è forse quello più ricco di citazioni dal testo e pochi approfondimenti, degna di particolar attenzione è la parte dedicata agli "uffici di collocamento" del XIV secolo ovvero le raccomandatrici, donne che si occupavano appunto di raccomandare balie o camieriere a servizio.
Curiosita: nel libro del Ménagier si trova la ricetta dei "guaffres", dolce di origine antichissima che in Belgio conserva la grafia gauffres, in inglese è diventato waffle mentre in Abruzzo è conosciuto come ferratella o pizzella, tradizionalmente cotta con un ferro speciale portato in dote dalla giovane moglie con incise nel centro le iniziali della sposa. La ricetta si trova sul sito Terre dei Trabocchi, io ho la mia personale.
Thomas Betson
Jan Van Eych, “Ritratto dei coniugi Arnolfini”, 1434, National Gallery di Londra
Questo è sicuramente il capitolo più interessante e più curiosamente documentato di tutto il saggio, parla di un commerciante di lana inglese del XV secolo e si basa principalmente su epistolari dell'epoca e trattati di costume.
Pochi sanno che la grandezza e il potere del Regno Unito si basano sulla lana, la sua lavorazione e il suo commercio. I mercanti di lana inglesi erano i più ricchi del paese, molti diventavano sindaci di importanti città e potevano erogare prestiti, tanto che la stessa corona si trovò indebitata con la Compagnia dell'Emporio, corporazione che trattava appunto la lana. La lana veniva dapprima commercializzata grezza dagli inglesi e trasformata in stoffe nei Paesi Bassi e in questo modo fiorirono sia i mercanti inglesi che le industrie dei Paesi Bassi, a fine Medioevo però gli inglesi iniziarono a lavorare la materia prima mandando in rovina le città tessili delle Fiandre.
La Power ha frugato tra gli epistolari conservati dell'epoca ritrovando questo Betson, mercante dell'Emporio di Calais, promesso sposo di una giovane di tredici anni di nome Katherine. nelle lettere di Betson affari commerciali e privati sono mescolati fornendo un'ampia panoramica sul periodo. Nel capitolo si parla di mercanti e mercati, degli usi del commercio dell'epoca e conosciamo tutto attraverso gli occhi di questo commerciante inglese che ci rende vive e palpabili nozioni su nozioni di economia medievale che normalmente sembrerebbero noiosissime.
In questo la Power ha compiuto una vera opera di divulgazione, piacevolissima.
Ho messo il ritratto dei coniugi Arnolfini perché più che una fotografia dell'epoca è fotografia di quello che coniugi borghesi di fine Medioevo potevano custodire nell'armadio e si vede proprio la signora Arnolfini indossare un vestito verde di pregiata lana inglese confezionato probabilmente a Bruges. Chi vuole approfondire questo aspetto può trovare soddisfazione qui, Episodio 1 di Luci e Ombre del Rinascimento su RaiPlay, appena dopo il minuto 8.30.
Thomas Paycocke di Coggeshall
Coggeshall
Dalla lana si passa alla stoffa.
Questo capitolo è il naturale seguito di quello precedente visto che il mestiere del pannaiolo prosperò nel momento in cui gli Inglesi decisero che oltre che venderla la lana dovevano anche trattarla e trovo molto carino che per introdurre l'argomento la Power si serva ancora delle parole di Chaucer, o meglio, della donna di Bath Aveva una tale abilità nel fabbricare la stoffa Da superare quelli di Ypres e di Gand
Caratteristica casa di Thomas Paycocke
Siamo alla fine del Trecento, nasce il sistema industriale: la fabbricazione delle stoffe necessita l'intervento di più persone specializzate ognuna nel suo settore: filatura e cardatura venivano affidati a donne e bambini a casa loro, poi c'era la follatura, la tessitura, la tintura e tutte queste attività divennero tanto importanti da necessitare sempre più persone e spazi cosicché l'attività si spostò nelle campagne dove alcuni villaggi erano interamente dedicati al settore tessile. Uno di questi villaggi era proprio Coggeshall, dalla caratteristica architettura con travi a vista, tratto distintivo delle case della borghesia, classe sociale nascente a metà tra signori e contadini. La Power trae le sue fonti dalle tombe, dalle abitazioni, dai lasciti che testimoniano quali fossero i possedimenti, gli oggetti più cari e comuni di quel tempo e da ciò che resta ancora ben visibile a tutti ovvero la casa di Thomas Paycocke, testimone imponente della nascita dell'industria tessile che gli inglesi hanno saputo conservare e trasformare in casa-museo grazie alla loro evidentissima propensione alla conservazione e cultura museale.