domenica 23 ottobre 2016

La diva Julia - Julia, Sybil, Marie Lloyd e l'icona dell'attrice perfetta



La letteratura inglese dei primi del Novecento è talmente ricca che questa opera di W. Somerset Maugham non viene nemmeno citata nei testi di storia della letteratura inglese. In effetti a mala pena viene citato Maugham. Forse avevano ragione i suoi detrattori che lo accusavano di scrivere in modo vecchio di tematiche vecchie. La rivoluzione che quei ragazzacci di Eliot, Joyce e Yeats avevano operato in tutti i campi della letteratura britannica, la novità dei temi, la novità del linguaggio e del genere letterario fu tanto sconvolgente che un'opera interessante come La Diva Julia venne considerata vecchia. E forse lo era.
Con un ritardo di quaranta anni sembra riprendere il tema accennato da Wilde nel Ritratto di Dorian Grey dell'attrice perfetta che quando si innamora smette di essere tale.
Sybil era una giovane attrice che viveva sul palcoscenico: in scena non c'era Sybil che recitava, erano Giulietta, Ofelia, Lady Macbeth che prendevano vita. La sua vita era sul palco e quando vi saliva tutto diveniva perfetto, di fronte a lei c'era Romeo, non un attore mediocre e poco attraente, il teatro diveniva castello o foresta, non recitava, viveva e faceva rivivere il dramma. Il pubblico la adorava. E' l'arte per l'arte che prende forma nei sobborghi di Londra, l'apoteosi dell'estetismo.
Poi conosce Dorian e lo bacia, il primo vero bacio d'amore le fa mettere in secondo piano la vita sul palco, ne percepisce finalmente la finzione e la magia si spezza, inizia a recitare, la rappresentazione è un disastro.
Suona familiare?
Nell'opera di Maugham Julia si innamora e viene abbandonata. Sale sul palco e "vi trasfuse tutto il tormento del suo spirito: il cuore straziato che raffigurava non era più quello di un personaggio, ma il suo".
Un disastro.
Sono due visioni diverse, quasi opposte dell'arte teatrale: nella visione di Wilde Sybil recita bene perché vive la scena, in quella di Maugham invece Julia recita bene perché non è naturale ma "sembra" naturale.
Sia Maugham sia Wilde  hanno scritto per il teatro e sul teatro ma mentre Wilde lo aveva vissuto da esteta, come pretesto per eleganti conversazioni, come mezzo di elevazione Maugham ha conosciuto il dietro le quinte, svuotato dalla magia, costituito da duro lavoro, tecnica, rinunce.
Entrambi hanno visto sul palco la Duse e la Bernhardt, le uniche donne a proposito delle quali si adoperava abitualmente la parola "genio," fatto eccezionale in un'epoca in cui si riteneva che il genio potesse essere solo maschile.
All'epoca di Wilde l'attrice era rivoluzionaria e trasgressiva, in quella di Maugham è una professionista, imprenditrice spesso, e così è Julia, una professionista borghese che ha dedicato la sua intera vita al teatro e al mantenimento della borghese apparenza, posseduta dall'arte della recitazione tanto da non riuscire a scindere la vita teatrale da quella reale, questo potrebbe far pensare a un finale drammatico, una presa di coscienza della finzione, della vacuità della sua vita, o almeno questo era quanto mi aspettavo, una tragedia insomma, preannunciata dal terribile sfogo che il figlio Roger le vomita addosso con una fredda calma vittoriana:

"Tu non distingui tra verità e finzione. 
Non smetti mai di recitare, per te è una seconda natura. Reciti quando ci sono degli ospiti. Reciti con i domestici, reciti con papà, reciti con me. Con me reciti la parte della madre amorosa e indulgente, e celebre. 
Tu non esisti, sei solo le parti innumerevoli che hai interpretato. Mi sono chiesto spesso se esistesse un "tu" o se non fossi altro che un veicolo per tutte queste altre persone che fingevi di essere. Quando ti vedevo entrare in una stanza vuota, certe volte volevo aprire la porta d'improvviso, ma temevo di non trovare nessuno".

Già, dopo queste parole ho percorso il resto del libro in attesa di un angosciante finale, preparandomi psicologicamente al momento in cui Julia avrebbe finalmente capito il significato di quelle parole e, sopraffatta dalla verità, avrebbe commesso il gesto estremo.
Col ciufolo che finisce in tragedia invece!
Il finale è un fuoco d'artificio continuo, un'esplosione di giustificata superbia, il trionfo della Diva che esce indenne dalla città in fiamme "Roger dice che non esistiamo. Macché, solo noi esistiamo davvero. Loro sono le ombre a cui diamo sostanza. Siamo i sinboli di tutto questo trambusto vano e confuso che chiamano vita, e solo il simbolo è reale. Dicono che recitare è solo finzione. Questa finzione è la sola realtà".


"Tutto il mondo è teatro e uomini e donne solo commedianti" Ma l'illusione sono loro, oltre quegli archi; la realtà siamo noi, gli attori. Ecco la risposta a Roger. Quelli sono la nostra materia grezza. Siamo noi a dar significato alla loro vita. Prendiamo le loro piccole insulse emozioni e le mutiamo in arte, creiamo bellezza, e loro importano perché formano il pubblico che ci occorre per realizzarci. Sono gli strumenti su cui noi suoniamo, e cos'è uno strumento senza qualcuno che lo suoni?




 Stavo per accantonare questo post quando girovagando tra scartoffie, appunti e libri mi trovo a passare dalla Taverna dei destini incrociati di Calvino alla Terra desolata di Eliot cui segue, nell'edizione di Opere in mio possesso (un mattonone della Bompiani stampato su carta tipo Bibbia) una lettera del 1922 alla rivista The Dial in cui parla dell'attrice britannica Marie Lloyd. Di lei dice:

"Marie Lloyd era, in Inghilterra, la più grande attrice di music hall del suo tempo: ed era anche la più popolare. E la popolarità, nel suo caso, non era solo la prova del suo talento: era qualcosa di più del successo. (...) Mentre altri attori divertono il pubblico quanto e a volte più di Marie Lloyd, nessun altro è riuscito così bene a dare espressione alla vita di quel pubblico e a innalzarla a una sorta di arte. (...) Non c'era in lei nulla di grottesco; nessuno dei suoi spunti comici era dovuto all'esagerazione; si trattava esclusivamente di selezione e concentrazione. (...) Ho detto che era colei che meglio rappresentava le classi meno abbienti. Non esiste una figura così rappresentativa per nessun'altra classe sociale. Il ceto medio non ha un idolo simile."

Mi piace pensare che in Julia ci sia, almeno nella genesi di Maugham, un po' della Duse, un po' (poco) della Bernhardt e un poco della Lloyd.

sabato 22 ottobre 2016

Grenouille novello Frankenstein? - Una mezza stroncatura de "Il Profumo"






















Quando mi immergo nella lettura di un nuovo libro è come se tutti i libri finora letti lo leggessero insieme a me, parola dopo parola, sottolineando somiglianze, plagi o differenze.

Accade anche con i libri insignificanti.

Anzi, forse proprio perché insignificanti accade che per dare giustificazione alle ore perse nella lettura io tenda a vederci ciò che magari neanche c'è.

E' quanto è accaduto leggendo "Il profumo" di Suskind, opera mediocre nella forma e nel contenuto di cui l'unica cosa che forse si salva è Parigi, le sue vie, i suoi profumi, le sue botteghe. Quando viene abbandonata Parigi il libro muore e si può tranquillamente accantonare.

250 pagine per narrare la vita di Grenouille, di un evil perfetto, un archetipo, senza morale, senza rimorso, senza... profumo.

Un personaggio che è pura ὕβϱις (Ýbris, superbia). Niente introspezione, niente coscienza, un personaggio talmente piatto e immobile che c'è da fare i complimenti all'autore per come è riuscito a tenersi lontano dalla tentazione di dare una giustificazione morale alla sua creatura.

E parlando di creatura non si può non pensare alla Creatura di Mary Shelley, mostro deforme nell'aspetto, in questo simile a Grenouille, ma tanto, tanto diverso per quanto riguarda la caratterizzazione del personaggio.

L'intuizione che in qualche modo giustifica la stesura di quest'opera è la determinazione dell'umanità attraverso il profumo, l'odore: un essere è umano ed esiste in quanto ha un odore ben specifico: sin dal principio madre e figlio si riconoscono e si accettano attraverso l'olfatto, il più primitivo dei sensi, quello più difficile da ingannare, l'odore che ognuno porta su di sé è ciò che ci definisce come persone così come ci definisce il nostro nome. Il nome definisce ciò che siamo, ci divide dal resto, ci manifesta come entità autonoma esistente separandoci dalla collettività e conferendoci dignità di persone.

Grenouille nasce senza odore

La Creatura nasce senza nome

Entrambi vengono rigettati e rinnegati dalla società, riconosciuti come il diverso, l'altro, per poi diventare agli occhi di chi osserva il שָׂטָן (Satàn in ebraico), l'avversario, "colui che si oppone", l'osteggiatore, l'aggressore.

Ma le differenze tra i due sono abissali.

La Creatura del dottor Frankenstein, cui è stato negato il nome, anela il riconoscimento, entrare a far parte della società, trae piacere dai fiori, dagli animali, desidera ardentemente essere amato e ricondotto in famiglia, in una famiglia qualsiasi e per un breve, brevissimo momento sembra riuscirci nell'incontro con un uomo cieco che lo accoglie in casa, gli parla con gentilezza, gli promette protezione. Poi, in un attimo, tutto è perduto, la felicità diventa dolore, il dolore odio, l'odio diventa desiderio di vendetta.

In Grenouille sembra esserci lo stesso desiderio: una volta compreso che è l'assenza di odore che lo allontana dalla società vive (e uccide) con il solo obiettivo di possedere un odore, anzi no, di possedere quell'odore che ispira amore, devozione, tenerezza, protezione. E quando finalmente riesce a possederlo, quando finalmente riesce a essere amato e apprezzato l'unico sentimento che prova è il disprezzo, il disgusto. Con in tasca la sua bottiglietta di odore perfetto si trastulla in sogni di gloria e potere, si congratula con se stesso per la sua superiorità nei confronti del genere umano ed... esagera.

L'Ýbris, la superbia che lo ha caratterizzato per tutta la sua vita sarà la causa della sua morte. Come Prometeo, come Lucifero cadrà.

sabato 15 ottobre 2016

In Difesa di Bob Dylan


Il Nobel per la letteratura assegnato nel 2016 a Bob Dylan ha sollevato un polverone. Non ultimo lo scrittore italiano Alessandro Baricco, autore di Novecento, si è chiesto a mezzo stampa cosa c'entri Bob Dylan con la letteratura. 
Alle sei e trenta di mattina del giorno dopo me lo chiedo pure io.
Cosa c'entrano le canzoni con la letteratura?
C'entrano tutto.
Come piccola riflessione personale potrei citare il fatto che nel mio sussidiario delle elementari era riportato, tradotto in italiano, il testo di Blowing in the Wind e se ne stava lì a testa alta insieme ad A Zacinto di Foscolo e alla canzone del partigiano...
Risposta non c'è
Ma forse chi lo sa
Perduta nel vento sarà...
Allora la conobbi come un testo scritto, la portai a casa da leggere e scoprii che in effetti nasceva in musica così il giorno dopo a scuola noi gnappetti di circa otto anni c'è ne andavamo per i corridoi intonando la sua canzone come una promessa, una speranza di un futuro migliore.
Dopo la breve digressione tutta personale torno a chiedermi cosa c'entra Dylan con la letteratura?
Ovvero
Cosa c'entrano le canzoni con la Letteratura?
Cosa è la letteratura?
Omero è letteratura?
Catullo è letteratura?
Shakespeare è letteratura?
I trobadours del 1200 sono letteratura?
Se la risposta alle ultime quattro domande è sì allora le canzoni c'entrano eccome!
Catullo.
Mùltas pèr gentès et mùlta per aèquora vèctus
àdvenio hàs miseràs, fràter, ad ìnferiàs...
Gli accenti rivelano il sistema di vocali brevi e lunghe che caratterizzavano il latino e che è rimasto sparso qua e là nelle lingue romanze. Si provi a leggerlo ad alta voce assecondando l'andamento degli accenti e si scoprirà che è ritmo e musica, distico elegiaco per l'esattezza.***


L'epiteto utilizzato per Omero, o chi per lui, è aedo. Gli aedi nell'antica Grecia erano i poeti, figure al limite del sacro spesso raffigurati come ciechi, non distratti dall'umana volgarità.

ὁ μὴ ὁρῶν (ho mè horôn) "colui che non vede" - Omero

Prima della tradizione scritta di Iliade e Odissea ci fu la tradizione orale, un'insieme di canti tramandati da generazioni. La poesia non era scritta ma orale, recitata, ricordata grazie a stratagemmi come epiteti, rime, assonanze, ripetizioni e musica, era inscindibile dall'alternanza di brevi e lunghe, inscindibile dal ritmo e dalla musica.

Se l'oralità dei poemi omerici non consentì di stabilire edizioni canoniche la tradizione scritta, nel tentativo di ricostruire un testo quanto più possibile aderente all'originale, dovette tagliare, emendare, tralasciare parti e aspetti importanti, cosicché quando il testo iniziò a circolare in Occidente dopo la presa di Costantinopoli, grazie ai profughi orientali che portarono le maggiori opere trascritte, la musicalità si era perduta, soprattutto perché nel medioevo occidentale il greco non era una lingua studiata e conosciuta, non c'era familiarità con il suo suonoe ciò che si conosceva della cultura greca erano per lo più testi tradotti in latino, scritti, letti, non decantati.


Nel basso Medioevo esistevano i trovatori, compositori ed esecutori di poesia lirica in lingua occitana nella Francia meridionale. In seguito si diffusero anche in Italia settentrionale, in Spagna e in Sicilia alla corte di Federico II di Svevia. La poesia era cantata o dagli stessi trovatori (autori) oppure dai menestrelli, era musicata, spesso con accompagnamento musicale.

Prova dell'importanza che la musica rivestiva nelle liriche dei trovatori sono due delle diciotto composizioni di Arnaut Daniel delle quali sono sopravvissute le note musicali... Arnaut Daniel, colui che Dante definì "il miglior fabbro del parlar materno"... mica pizza e fichi.


Il fatto che l'accompagnamento musicale fosse spesso improvvisato, non canonizzato, non trascritto ha fatto sì che via via si tendesse a scindere la parola scritta dalla sua forma orale cantata stabilendo, forse neanche intenzionalmente, la supremazia della prima sulla seconda.


A sottolineare lo stretto legame storico della poesia con la musica e il ritmo restano le definizioni: Iliade e Odissea sono divise in Canti, la Divina Commedia è ripartita in canti, le raccolte di poesie del medioevo vengono definite Canzonieri, componimenti medievali venivano definiti Chansons (de geste, de croisade, de toile...) Shakespeare viene definito il Bardo, proprio a sottolineare la musicalità del suo pentametro giambico (altra alternanza di accenti) ed Ezra Pound, bistrattato, dimenticato genio letterario del Novecento, ha chiamato Cantos il suo poderoso poema incompiuto proprio in relazione e devozione alle Canso medievali, un altro "miglior fabbro", questa volta secondo il giudizio di T.S Eliot.


Quindi signor Baricco Bob Dylan c'entra eccome con la letteratura. Forse quello fuori posto è lei.


*** Negli anni degli studi ci sono tante nozioni che vengono via via dimenticate, sepolte sotto valanghe di altre nozioni, ricordi, liste della spesa, fotografie. Poi ci sono lezioni che sicuramente non riuscirò a dimenticare e ritorneranno alla mia mente a novanta anni quando non sarò in grado di ricordare cosa avrò mangiato a pranzo. Tra queste la metrica latina, quando il prof. De Micheli (latinista, matematico e musicista) dirigeva dalla scrivania la classe che intonava in metrica i versi di Catullo e Tibullo.

mercoledì 21 settembre 2016

Martha Quest - una ribelle mancata



E...... no, non è il giovane Holden in gonnella, l'anti-eroe che ha stravolto l'America benpensante.
Non è nemmeno Elizabeth Bennet, l'arguta signorina della campagna inglese nella quale molte, moltissime ragazzine, e donne, si sono viste e sognate.

"non ne posso più; e sono stanca anche del futuro, ancor prima che venga." Olive Schreiner

La citazione che accompagna l'apertura della parte prima riassume in soldoni tutto il libro.
Entriamo subito in contatto con Martha seduta in veranda, tra le mani un libro e negli occhi tutto l'astio possibile nei confronti di sua madre, dell'amica di sua madre, della figlia dell'amica di sua madre e della catapecchia in cui vive.
Martha è sveglia, è curiosa, legge tanto, forse troppo ma non osserva "non è un'osservatrice", la Lessing lo ripete due volte nel corso del libro, forse perché troppo concentrata su se stessa, sul suo malessere, sulla sua rabbia, sulla sua presunzione. Presunzione di essere... che? Un genio incompreso, una portavoce dei diritti di donne, ebrei, neri, lavoratori, qualunque cosa vada contro lo spirito stanco e borghese cui appartiene la sua famiglia. Salvo poi scoprire il grande paradosso della terra coloniale in cui vive ovvero che esistono razzismi interni alle stesse classi di cui vuole farsi portavoce. Esistono razzismi tra ebrei inglesi ed ebrei polacchi, tra neri di città e neri di fattoria, tra donne caste e non.
Sporadiche citazioni di fatti di cronaca ci fanno capire che siamo giunti all'alba della Seconda Guerra Mondiale ecome se tutto il mondo fosse colpito da un virus globale la violenza dei toni inizia a infettare tutto, come spruzzata dall'alto dalla mano della Storia.

Il libro copre tre anni della vita di Martha, dai quindici ai diciotto/diciannove. All'inizio il senso di simpatia per questa giovane ribelle saccente è forte, anche sua madre pur non comprendendola ritiene che sua figlia sia destinata a compiere grandi cose "si farà strada" dice, ma poi accade qualcosa, o meglio non accade: Martha non supera l'esame di maturità, a dire il vero non si presenta nemmeno a causa di un tracoma. Scopriamo come questa sia l'ultima di altre scuse che hanno impedito a Martha di combinare qualcosa: niente musica, niente cresima, ogni volta che viene messa di fronte alla possibilità di dimostrare la sua supposta superiorità un evento esterno le impedisce di farlo. In questo e in altri atteggiamenti mi ha fatto pensare al padre, forse brillante un tempo ma in seguito indebolito nello spirito dalla Guerra e nel corpo da una lieve forma di diabete, entrambi gli forniscono l'alibi per non aspettarsi nulla da lui, nulla di più di quel che è o fa.

Persa l'occasione per dimostrare la sua grande intelligenza all'università, dopo due anni trascorsi nella totale nullafacenza coglie al volo l'occasione di fuggire dalla fattoria, le trovano casa e lavoro e...
beh...
Non accade praticamente più nulla se non il lasciarsi trascinare dagli eventi senza entusiasmo, senza partecipazione. La ragazza nella quale avremmo voluto immedesimarci scompare e prende il suo posto una figura noiosa, antipatica, sempre pronta a giudicare gli altri ma non a essere giudicata. La sua vita scorre senza lampi, senza gioia, senza partecipazione si ritrova a rotolare giò da una collina senza nemmeno la voglia di impedire il rotolamento.
Verso la fine del libro si accende una speranza, sembra irrompere la luce di una conoscenza nuova, una persona speciale che possa infine darle l'ascolto e la comprensione di cui ha bisogno ma il tutto è descritto con stanchezza, forse noia, come se all'autore non interessasse più il destino di questa donna e volesse rapidamente chiudere il libro.
Devo capire se avrò ancora voglia di rivedere Martha nel seguito "Un matrimonio per bene", la premessa non mi convince affatto.
Devo capire soprattutto se avrò voglia di rileggere qualcosa della Lessing. Proverò l'ultima volta con Il Taccuino d'Oro e poi deciderò se accantonarla o proseguire.

Il libro si salva però, si salva nelle irresistibili descrizioni della Lessing del paesaggio, della terra che l'ha cresciuta, lo stupore è lì, nello spaziare dello sguardo sul Veld, nell'insinuarsi tra le differenze sociali di baracche e palazzi, nell'osservare silenzioso e discreto la società coloniale, questo mix di culture, colori, ipocrisie che si uniscono senza però comprendersi pienamente, ognuno arroccato nella parte di città (o campagna) che gli è stato destinato con i propri sospetti, le proprie chiusure, la paura della contaminazione attanaglia anche i più insospettabili e attraverso gli occhi di Martha proviamo disgusto. Potrebbe esserci molto di più ma forse è il mio sguardo di europea a desiderare quel tocco di pittoresco che non c'è, come fossimo ancora nell'Ottocento e l'Africa una terra misteriosa, come se Martha fosse una scimmia chiamata per divertire il pubblico borghese, invece questa scimmia si rifiuta di ballare e si mette a discorrere del tempo e sorseggiando tè nero.

domenica 4 settembre 2016

Storia di una ladra di libri - una storia di Parole



Il libro mi fu regalato da mia madre. Ha l'abitudine di regalarmi i libri che ha già letto e tra noi c'è una sorta di patto che vale per i libri così come per i vestiti: se ti piace te lo tieni, altrimenti lo vendi, lo regali, lo butti... basta che non torna indietro.

E' rimasto su di una mensola per un po' di tempo, anni. Ogni tanto lo prendevo in mano, leggevo la sinossi,e lo rimettevo sulla mensola.
In soldoni la sinossi dice che siamo nel 1939, nella Germania nazista, che la ragazza ruba un primo libro, poi un secondo, un terzo... sembra più che altro la storia di un'accumulatrice compulsiva, una di quelle storie che raccontano su Real Time, con una spolverata di nazismo e un pizzico di shoah che ci stanno sempre bene.
Per nulla accattivante.

Invece no.
Invece è un libro di Parole.
Di Parole, di libri, di scritti, disegni, letture, vernici.
Con le parole si combatte, si domina, si ama.
Tra tante parole mancano un "grazie" all'inattesa benefattrice, un "ti voglio bene" alla mamma, le parole dell'affetto vengono taciute lasciando che siano i gesti a parlare.
Parole d'odio che vengono ricoperte e sovrascritte da parole d'amore e speranza, un palinsesto di come il mondo dovrebbe essere e invece non è.
Parole offensive che significano amore.
Parole che assumono fisicità, peso, sostanza, vengono trasportate come fardelli, lasciate cadere con un tonfo, gettate su di un tavolo o per terra dove restano immobili a farsi guardare, un oggetto perturbante che irrompe nella realtà, un nuovo rigurgito di gotico, tutto postmoderno, in cui il perturbante non è più il mostro, lo sciamano, il gatto nero ma la realtà che si palesa, l'ovvio di cui nessuno osa parlare perché chiamarlo per nome significherebbe immediatamente riconoscere la sua esistenza.
E doverci fare i conti.
Dunque... Parole.
Il narratore è onnisciente. Chi meglio della Morte può conoscere passato, presente e futuro?
Il narratore sa già come va a concludersi la storia e goccia a goccia ce lo anticipa. Un po' qui, un po' là.
Cosicché il lettore desidera terminare la lettura del libro non tanto per sapere come andrà a finire ma come verrà narrato il finale, quali Parole verranno utilizzate, quali aggettivi, quali avverbi, quali immagini verranno materializzate tra le righe.
E' l'autore che sgama il lettore avido, quello che arrivato all'ultimo centinaio di pagine va a curiosare il finale per decidere se continuare o no a leggere. O quello che legge freneticamente e senza approfondimenti le ultime pagine perché quello che davvero gli preme è avere un finale per poter poi classificare il libro tra "libri che fanno piangere", "libri a lieto fine", "libri acchiappapolvere".
Fregati!
Zusak ci risparima la fatica, ci svela il finale nel momento in cui ritiene che siamo abbastanza pronti per sostenerlo, nel momento in cui "se siamo arrivati fin lì significa che possiamo anche andare oltre terminando la lettura con un macigno sul cuore". Personalmente ho apprezzato molto, le sorprese non mi piacciono, i colpi di scena mi destabilizzano. Insomma, se proprio devo piangere, ridere, sconvolgermi preferisco arrivarci preparata cosicché posso decidere io quando affrontare il Momento, no che mi arriva durante la pausa pranzo a 20 minuti dalla timbrata del cartellino. Ecco, io sono classificabile tra quegli avidi che al quarto quinto di una lettura va a vedere come termina in modo da decidere io quando e come terminare il libro.

Che poi adesso con tutto questo discorso sulle parole, sulla loro matericità e importanza mi viene in mente Moretti quando si incazza perché "le parole sono importanti"

Ma questa è un'altra storia
E ci torneremo un'altra volta