mercoledì 1 maggio 2019

Dalla parte di Swann - nel mondo di Proust


“Longtemps, je me suis couché de bonne heure.”
L'anno scorso, usufruendo di un buono su Amazon, ho infilato nel carrello l'intera Recherche di Proust, una follia.
Nella mia ricerca personale di costruire, mattone dopo mattone è il caso di dire, una biblioteca che includa i maggiori classici della letteratura europea, la Recherche costituiva un'opera indispensabile, una promessa di lettura per la vecchiaia.
Qualcuno, non ricordo chi, scrisse un tempo che i lettori si distinguevano tra "quelli che avevano letto la Recherche" e "quelli che non l'hanno mai letta".
Ecco, io volevo far parte di quella ristretta cerchia di lettori di Proust, di lettori veri, non quelli che dicono di averla letta anni fa e che è pesante, non quelli che l'hanno presa in mano e letta a tratti saltando le digressioni.
Io volevo entrare nel mondo di Proust, lasciarmi trascinare dal fiume in piena delle sue parole, perdermi nei periodi infiniti che tolgono il fiato se letti ad alta voce.
Io volevo essere una lettrice proustiana.

Tuttavia la mole mi terrorizzava. Provo sempre un certo timore ad affrontare un grande autore per la prima volta: da un lato sono piena d aspettative, dall'altro sono cosciente che dovrò imparare un'altro linguaggio per entrare completamente nell'opera e nella mente dell'autore.
Il linguaggio di Proust è tra i più difficili che io abbia mai affrontato, ammetto che ho qualche difficoltà con i periodi lunghi ma generalmente li affronto senza troppe difficoltà... Dalla parte di Swann va oltre la stessa concezione i periodo lungo, di digressione, va oltre l'idea di prosa e di poesia, oltre il saggio filosofico: è tutto insieme prosa, poesia, saggio filosofico, memoriale e studio di costumi di balzachiana memoria.
Vorrei poter dire che si tratta di flusso di coscienza, non è così o forse sì ma è una coscienza apparentemente fanciullesca che cela al suo interno una razionalità matura in cui tutto, ne sono certa, alla fine si ricollegherà.

Le prime cento pagine, tra desiderio morboso del bacio della mamma e osservazioni sui biancospini, è traumatizzante. Cento volte si è spinti ad abbandonare, cento volte si prosegue: è una scalata impervia in attesa del Campo Base 1 che stenta ad arrivare, solo a tratti al lettore è garantito il ristoro: il primo arriva davanti a una tazza di infuso di fiori di tiglio e un dolce. Agognavo il momento delle madeleinettes, l'ho atteso per tanti anni tra i sentito dire di gente che probabilmente non c'era mai arrivata, l'ho atteso dai tempi del liceo, qundo il prof di filosofia ci parlò di Bergson e della connessione con Proust, era lì che mi aspettava e poi eccolo lì davanti a me a offrire riparo dalla tempesta di parole. Eccolo il mio Campo Base tra i ricordi di zia Léonie, il ristoro, quell'immagine di ricordi evocati dal profumo, dal gusto di cose lontane che in un assalto ci travolgono e noi non riusciamo subito a comprendere cosa sia perché troppo impegnati a riprodurre l'evento scatenante. Guardiamo il presente per riprodurre un'emozione mentre dovremmo distaccarci e proprio nel momento in cui lasciamo perdere, sicuri che si tratti solo di un abbaglio, eccolo lì che ritorna e noi siamo pronti a catturarlo e trattenerlo. Effimero, impalpabile, ci restituisce non solo la memoria degli eventi ma il flusso delle emozioni di quel momento.
Come quando si guarda il cielo di notte cercando una stella e scrutando lì dove dovrebbe essere non la troviamo ma se distogliamo appena lo sguardo e posizioniamo il punto in cui la stella dovrebbe apparire un po' fuori fuoco, eccola che ci appare, la stella, pronta a svanire di nuovo appena rifocalizziamo lo sguardo su di lei.

La prima parte del libro, quella dedicata alle memorie del protagonista, è di una bellezza disarmante: ogni passo sembra buttato a caso come quando stiamo per addormentarci e i pensieri, non più guidati dalla ragione, si susseguono in ordine caotico e irrazionale.
Le madeleinettes, la chiesa, la passeggiata, M. Vinteuil, sua figlia, l'odore del corrimano di casa a Combray e la bambina nel giardino, la lanterna magica che illumina la stanza del narratore con storie di un passato mitico merovingio e che viene descritta con attenzione ossessiva.
E io che in pieno fervore storico sono andata a ripercorrere la storia dei re merovingi per trovare la Genoveffa di Brabante e di qual re fosse la moglie per rendermi conto, dopo varie ricerche e dopo aver scartabellato libri e appunti di storia, che Genoveffa non è mai esistita così come non è esistito il suo sposo re dei Merovingi e che sono frutto anche loro della fantasia di Proust.
Quell'idea, quel desiderio di scrivere e di non fare somigliante.

Non fare somigliante.

A mano a mano un'idea prende forma in me: Proust sta preparando la sua tavolozza e ne rende partecipe il lettore: ha disposto i pennelli in ordine, preso i colori e li mescola davanti ai nostri occhi cosicché possiamo vedere il rosso combinato con il blu nelle passeggiate che si fanno ora dalla parte di Swann ora dalla parte dei Guermantes, possiamo ammirare l'autore che calibra il bianco da aggiungere al rosso nel ritratto di Mme Guermantes, brutta fino al momento in cui l'autore non la associa all'idea di nobiltà, allora ci ripensa "Come è bella", pensa.
È l'ideale che trasfigura la realtà: accade per la prima volta con Mme Guermantes incarnata nell'idea di nobiltà che rappresenta, accade in seguito per Odette de Crécy della quale Charles Swann si innamora nonostante non le piaccia fisicamente, eppure Charles trova in questa passione una giustificazione artistica, quando la accosta alla Sefora di Botticelli. Grazie a questa trasfigurazione la passione per Odette si trasforma in un dovere estetico e Charles non vede più la grettezza e la grossolanità di questa donna, vede solo l'ideale di cui la ha ammantata e la privazione, il timore di perderla, la rende ancora più importante e necessaria fino a scatenare dapprima una furia di parole, in seguito l'abbandono di sé stesso, la sottomissione, la resa irrazionalmente inconcepibile.

A fare da specchio a questa ossessione accorre il capitolo finale che racconta l'ossessione amorosa del piccolo Marcel per la giovanissima Gilberte. Nelle parole di Marcel si coglie la stessa gelosia, la stessa ossessione, lo stesso desiderio di averla tutta per sé, di conoscere i suoi amici, i suoi pensieri, solo in forma rimpicciolita, più tenera forse ma anche grottesca.
Il lettore sorride davanti alla passione del piccolo Marcel, il piccolo narratore pensa che Swann sorriderebbe di cuore se leggesse il tenero biglietto che scrive alla mamma eppure questa gelosia è della stessa natura ossessiva di quella che attanaglierà il cuore di Swann per Odette.
Che tutta l'ossessione, forse, è grottesca e forse è sublime.

Il primo volume della Recherche appare caotico al principio: una serie di ricordi sradicati dalla sequenza temporale, inanellati e circolari, ricchi di anticipazioni e analessi che si danno struttura nella mente del lettore.
E' la struttura di una cattedrale, un'immensa cattedrale gotica con struttura a croce latina, fatta di mura, pilastri, archi rampanti, vetrate policrome, trifore e cappelle laterali.
Questa è l'idea che ne ho avuto, che la parte di Swann sia una parte del braccio minore e quella dei Guermantes l'altra parte, che in fondo troveremo l'altare, in cima la guglia e una o due torri campanarie.

E che per uscirne dovremo tornare indietro.

Nella parte del libro dedicata a un amore di Swann (in cui quell'"Un amore" lascia credere che ve ne saranno altri in futuro, la narrazione scorre come un fiume in piena, i personaggi si fanno stereotipi grotteschi di un mondo a noi lontano, a tratti divertenti, a tratti patetici. Le emozioni che sorgono durante la lettura sono più viscerali, su tutte mi è rimasta la rabbia scatenata dalla patetica gelosia di Swann: un uomo che è troppo per l'ambiente da cui si lascia risucchiare eppure non riesce a evitarlo. Vorrei entrare tra le pagine, strattonarlo e farlo ragionare come facevo con le mie compagne di scuola quando prendevano una cotta sofferente e so che anche se riuscissi a valicare il confine tra realtà e letteratura, Swann mi ascolterebbe per un attimo, forse proverebbe a ritornare sui suoi passi ma poi finirebbe per cedere di nuovo, ancora, tra le braccia di Odette.
Ciò che ho amato, uno dei tanti aspetti che ho amato di questo libro, è che conosciamo già come terminerà la storia di Swann: ci viene rivelato nelle prime pagine perciò il lettore non si ritrova ossessionato dall'idea del "come va a finire": lo sa già: ciò che gli resta è godersi il viaggio, perdersi nel racconto, tra la punteggiatura abbondante, per digressioni in salita e discesa.

Che opera divina!

In questo momento, a conclusione della lettura del primo volume, mi trovo di fronte a tre alternative tra le quali non so scegliere:
- Iniziare un nuovo libro che non ha nulla a che vedere con Proust
- proseguire la lettura di Proust con All'ombra delle fanciulle in fiore
- ricominciare Dalla parte di Swann

Per darvi giusto un assaggio dell'armoniosa bellezza dei periodi proustiani e di come ogni singolo momento possa essere trasformato in occasione per una digressione che apre al lettore le porte della percezione solipsistica vi lascio un assaggio del primo libro tratto dal capitolo Un amore di Swann: il narratore parla di una particolare frase della sonata Vinteuil, composta da un abitante di Combray caduto in disgrazia, questa frase diventa il leitmotiv che accompagna la relazione tra Charles Swann e Odette.

Anche quando non ci pensava, la piccola frase esisteva latente nel suo spirito, a pari titolo di certe altre nozioni prive di equivalente, come la nozione della luce, del suono, del rilievo, del piacere fisico, che sono i ricchi possedimenti nei quali si diversifica e dei quali si adorna il nostro regno interiore. Forse li perderemo, forse si cancelleranno, se noi ritorniamo nel nulla. Ma, finché viviamo, non possiamo più agire come se non li conoscessimo, al pari di un oggetto reale, nello stesso modo in cui, per esempio, non possiamo dubitare della luce della lampada che viene accesa davanti agli oggetti trasfigurati di camera nostra, da cui è fuggito persino il ricordo del buio. Così, la frase di Vinteuil – come ad esempio un certo tema del Tristano, che rappresenta a sua volta un determinato acquisto sentimentale per noi – aveva sposato la nostra condizione mortale, aveva preso qualche cosa di umano e questo era assai commovente. La sua sorte era legata all’avvenire, alla realtà della nostra anima, di cui costituiva uno degli ornamenti più peculiari, meglio differenziati. Forse la verità è il nulla, e tutto il nostro sogno non esiste, ma noi allora sentiamo che queste frasi musicali, queste nozioni che esistono in rapporto a esso, dovranno essere nulla anch’esse. Periremo, ma teniamo in ostaggio queste prigioniere divine che seguiranno il nostro destino. E la morte, accanto a loro ha qualche cosa di meno amaro, di meno inglorioso, forse di meno probabile.
In tutto Dalla parte di Swann vediamo questo sentimento espresso rivestire tutta la realtà di un velo di arte; rimodella ciò che percepiamo in belle nozioni di prosa, musica, scultura, architettura o qualsiasi altra forma di estetica, Proust cerca di scoprire la vera forma del significato e di aggrapparsi a un ideale, un ideale che rimarrà come un dolce profumo molto tempo dopo che l'oggetto reale del desiderio ha sbiadito o ha cominciato a marcire.

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